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Il rapporto di Antigone sugli under 18 dietro le sbarre Intervista a Paolo Tartaglione, referente area penale minorile del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza. «Avevamo un’ottima legge, è stata spazzata via senza dibattito politico e a colpi di fiducia»

Paolo Tartaglione è un pedagogista e ha 49 anni. Presidente della cooperativa Arimo, che in Lombardia si occupa di giovani autori di reati, svolge un ruolo di consulenza per il Garante regionale dell’infanzia ed è referente dell’area penale minorile del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza. Al Cnca aderiscono 240 organizzazioni presenti in quasi tutta Italia. Con Tartaglione parliamo del settimo rapporto di Antigone, Prospettive minori.

La colpisce che il 57% dei ragazzi detenuti negli Istituti penali minorili siano stranieri?

Il dato è in aumento da qualche anno ed è molto alto. La nostra legge penale minorile parla del reato come di una richiesta di aiuto estrema. I ragazzi che accedono al penale, senza eccezioni, sono in condizioni drammatiche, fanno fatica a crescere e sollevano il problema compiendo il reato. I minori stranieri si trovano frequentemente in condizioni limite. Se prevenzione e interventi sociali sono insufficienti restano solo le risposte estreme: la psichiatria o il reato.

In questo contesto il governo è intervenuto sui minori stranieri non accompagnati raddoppiando la capienza dei centri di accoglienza e permettendo di usare anche le strutture per adulti.

Vediamo pochissima lungimiranza da parte della politica. Non so se prima ci fosse, ma ora sicuramente manca. Sia i provvedimenti legati alla gestione dei flussi migratori, sia il decreto Caivano sono destinati a estremizzare la sofferenza dei ragazzi e questo fa aumentare reati e accesso alla psichiatria. Sono misure che a breve termine soddisfano la pancia degli elettori, ma nel medio periodo creano disastri. Chiunque ha un minimo di esperienza sul campo lo sa.

Il decreto Caivano è al centro del rapporto di Antigone, che scrive: «ha effetti distruttivi sul sistema della giustizia minorile». Cosa sta avvenendo?

Avevamo un’ottima legge penale minorile, del 1988, scritta con riferimenti culturali eccezionali. È stato deprimente vederla spazzare via senza dibattito politico e attraverso il sistema della fiducia, in un’Aula quasi vuota. Con la conversione in legge del decreto Caivano è esploso il ricorso alla carcerazione. Portare un minore dietro le sbarre è il modo migliore per aumentare la recidiva. Più mettiamo i ragazzi in carcere più avremo reati. Ma la cosa più grave è l’aver limitato la possibilità di concedere la messa alla prova, il fiore all’occhiello del nostro sistema penale minorile, invidiato in tutto il mondo. Prima si poteva usare con qualsiasi reato, oggi no. Per esempio è esclusa in caso di rapina aggravata, che detta così sembra una cosa terribilmente pericolosa ma è frequentissima negli adolescenti.

Un esempio? Sottrarre il cellulare a un coetaneo minacciando di prenderlo a schiaffi. Tutto questo mentre anche negli istituti penali minorili è arrivato il sovraffollamento e non ci sono posti. Per eseguire le misure cautelari dalla Lombardia i ragazzi sono mandati in Puglia o Sicilia, venendo meno il diritto di stare vicino alle famiglie.

Nel rapporto si legge che «la detenzione minorile appare come un fenomeno che ha come protagonista il Meridione». Che ne pensa osservando il tema dalla Lombardia?

Non mi pare che la giustizia minorile in questi anni si sia caratterizzata per una particolare differenza di trattamento tra Nord e Sud. Sicuramente c’è un’eterna differenza di risorse. Al Nord si è fatto molto più ricorso alle comunità e meno alle carceri per questioni economiche, non culturali. La Lombardia ha collocato nelle comunità più persone di tre o quattro regioni messe assieme. In una situazione in cui le risorse sono poche è possibile che al Sud ci sia un ulteriore peggioramento.


Intervista pubblicata da Il Manifesto

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