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Per gentile concessione del curatore e dell'editore, pubblichiamo un brano dell'introduzione di "Quello che dovete sapere di me. La parola ai ragazzi", a cura di Stefano Laffi (Feltrinelli Editore).
 

Il libro contiene una selezione delle 900 lettere di ragazzi che nell'estate 2014 hanno partecipato alla Route nazionale, appuntamento storico degli scout Agesci. Invitati a scrivere una lettera con il titolo "Quello che dovete sapere di me", hanno scelto di stendere liberamente il proprio autoritratto, intorno a pensieri, questioni, sentimenti avvertiti come urgenti.

20160406 Sapere Laffi

Cosa ci stanno dicendo questi ragazzi – o, sarebbe meglio dire, queste ragazze, perché a scrivere, come sempre, sono più spesso loro? Moltissime lettere raccontano

tratti emotivi, stati d’animo, valori e princìpi, paure, angosce, passioni e fantasie, preferendo tutto ciò come autopresentazione ad altri elementi in passato tipici del racconto di sé a questa età, come le scuole frequentate, le passioni sportive, le appartenenze ideologiche, l’identità di status o familiare ecc.: a contare, oggi, è una soggettività in parte nuova – moltissime

lettere affermano “nessuno mi conosce davvero”, a volte rivendicando questa identità nascosta e altre volte semplicemente constatandola –, una soggettività raramente in prima linea nel curriculum delle cose fatte, spesso dissimulata anche nelle relazioni fra pari o con i genitori.

I ragazzi e le ragazze, quindi, non sono e non si sentono per come sono visti: questo suggerisce la prudenza con cui dovremmo avvicinarci a loro per provare a capire, la necessità di cogliere anche le parti non emerse dell’iceberg, l’ingiustizia di un’arena sociale che non ha dato cittadinanza agli adolescenti, costringendoli a vivere una contemporaneità che così poco li esprime e rappresenta, in cui è così difficile riconoscersi.

Questo universo interiore è sterminato, le lettere ricorrono molto spesso agli elenchi come soluzione espressiva del caleidoscopio emotivo, e altrettanto spesso dichiarano in incipit l’impossibilità della sintesi e della focalizzazione; a volte rivendicano la propria molteplicità ma più frequente è la confessione di un senso di smarrimento. Inutile dire quanto, a fronte di questo, sia folle definire e classificare, credere a un modello di adolescente dell’epoca, tracciare identikit, trarne conseguenze.ù


l’identità è dinamica, l’unica possibilità di coglierla
è restare in dialogo con questa generazione,
moltiplicare gli scambi e gli spazi di parola
per vederla prendere forma, senza generalizzazioni,
senza ancoraggi forti a comportamenti e agiti,
da cui passa solo in parte quell’universo interiore


Nel corso della lettura, si ha anche l’impressione che, se queste lettere fossero state scritte un mese dopo o anche la mattina dopo dalle stesse persone, sarebbero state diverse, come succederebbe a chiunque a quell’età se fosse chiamato a descriversi lungo un viaggio che è essenzialmente la scoperta di sé: l’identità è dinamica, l’unica possibilità di coglierla è restare in dialogo con questa generazione, moltiplicare gli scambi e gli spazi di parola per vederla prendere forma, senza generalizzazioni, senza ancoraggi forti a comportamenti e agiti, da cui passa solo in parte quell’universo interiore. Questa identità mutevole, plurima o misteriosa a

loro stessi non c’entra con quella che vediamo, né tantomeno con quella che vorremmo vedere, quando sovrascriviamo a figli o studenti il modello di figlio o studente che attendiamo al varco, negli atteggiamenti a casa o nelle verifiche a scuola. Ragazze e ragazzi sono iperconsapevoli delle maschere sociali, patiscono le attese dei genitori e i propri sensi di inadeguatezza, così come sanno benissimo che nei social network e nelle relazioni fra pari si forzano le identità e si mettono in scena rappresentazioni artefatte di sé, che loro stessi non reggono più. Lungo una sequenza sempre più fitta di prove e selezioni – il test di ammissione all’università è la nuova angoscia di questa generazione –, le lettere ci restituiscono ragazzi e ragazze che chiedono alla società di rompere l’incantesimo: non amano questa corsa a essere il migliore o il talentuoso, quello simpatico o quello all’altezza, quella bella o quello sicuro di tutto, chiedono di potersi muovere liberamente nei propri limiti, lontani anni luce dalla generazione delle carriere e del successo cui forse appartenevano i loro genitori.

 



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