Per gentile concessione dell'autrice e dell'editore, pubblichiamo l'Introduzione di "Che cos’è la cooking therapy ", di Barbara Volpi (Carocci editore).
La cucina è affettività, la cucina è trasmissione,
la cucina è condivisione, la cucina è trasformazione,
la cucina è scelta, la cucina è resilienza, la cucina è creatività,
la cucina è narrazione, la cucina è... maestra di vita.
Un giorno mia figlia, raffinata buongustaia, assaporando una pietanza che le avevo preparato per cena, ha esclamato: “Mamma, se mai dovessi smettere di fare la psicoterapeuta potresti fare la cuoca!”. Non è poi così lontano dalla mia esperienza il legame tra la psicologia e la cucina.
Ho sempre trovato delle affinità elettive tra le due discipline, legate in modo inscindibile dal collante naturale del nutrimento, inteso nel senso generale di cura e attenzione, ma anche dalla trasmissione di nuovi modi di procedere, celati spesso dal velo della sofferenza, che riescono a emergere e a dare nuova vitalità quando il disagio viene accolto e deposto a terra.
Nel corso degli anni la passione per la cucina – nata in famiglia, proseguita attraverso studi amatoriali e poi confluita nella formazione specifica di cuoca – e il mio lavoro di psicoterapeuta si sono integrati nella creazione di un laboratorio di sperimentazione e di ricerca presso il mio studio, in cui ho potuto constatare gli effetti del potere terapeutico del cucinare con bambini, con adolescenti, con adulti e anche con coppie e famiglie. Tagliando le verdure, impastando la farina con le uova, osservando e controllando pazientemente che cosa bolle in pentola si è modellato un percorso di crescita e riflessione che ha gettato le basi per un modalità di intervento il quale, nella centralità del fare, rende vivi gli elementi psichici del mondo interno di ciascuno nell’hic et nunc di un essere in relazione, che a sua volta contiene e supporta la crescita interiore.
La stanza della cucina diventa quindi un laboratorio terapeutico, in cui il cibo e le sue infinite trasformazioni fanno emergere ricordi e sentimenti lontani nel tempo, indicazioni, associazioni, insights e potenzialità creative, che investono ad ampio raggio la persona nella sua veste di paziente o semplice utente di un percorso educativo e di benessere, in cui viene riconosciuta la fragranza degli elementi psicodinamici rivestiti da quella ganache di semplicità che dà spessore affettivo alle cose comuni e quotidiane.
L’obiettivo del libro è trasmettere i concetti chiave del percorso strutturale della cooking therapy, un’entrée in termini culinari, in modo che, iniziando a impastare l’acqua con la farina, dalle mani e dalla manipolazione degli ingredienti si possa apprendere un nuovo percorso di attenzione e cura, che dalla preparazione del buono per il corpo fa scaturire il bene per la mente, nella messa in rilievo di denominatori comuni tra un fare psichico e un fare manuale. La psicologia, e in modo specifico la psicoterapia, è orientata alla ricerca del bene dell’altro e per l’altro. Il paziente che entra nello studio del clinico apre la porta al proprio disagio e al bisogno di essere aiutato a comprendere le difficoltà in cui si trova per affrontare meglio la vita di ogni giorno. I fantasmi del passato, i conflitti intrapsichici derivati dal suo percorso di crescita vengono rilevati e portati alla luce, così da poter procedere con maggior chiarezza nell’attualità del qui e ora. Si tratta di una terapia tesa al benessere della persona, che nasce storicamente per curare patologie specifiche come l’isteria, ma che, con l’evolversi del metodo psicodinamico della cura, e in particolare con l’emergere della moderna psicologia evolutiva (Developmental Psychology), si è sempre più interessata all’azione preventiva, allo scopo di evitare che il disagio venga cementato in nuclei patogeni (Tambelli, 2012).
In questa evoluzione ha fatto la sua timida comparsa nella scena clinica il bambino che, nell’esprimere il suo malessere e le sue problematiche, ha destato l’interesse terapeutico nel qui e ora della scena familiare, senza necessariamente dover andare, una volta adulto, a ritroso nel tempo per cercare di scovare i nodi problematici di un’infanzia affettivamente incrinata. La focalizzazione sullo scenario attuale, in cui si potrebbe incistare il germe del disagio, ha indirizzato la comunità scientifica verso l’individuazione di fattori di rischio e di protezione dell’ambiente di sviluppo, generando implicazioni cliniche di ampia portata, indirizzate essenzialmente verso una psicologia della salute tesa a promuovere e a tutelare il benessere della persona e della collettività nei vari momenti del ciclo vitale.
Cura, attenzione, ricerca, prevenzione e tutela del benessere psicologico sono gli ingredienti principali che guidano anche l’operatività in cucina, ben rappresentati oggi giorno da chef lungimiranti, ma anche da nonne amorevoli, mamme attente, papà e uomini laboriosi che hanno colto dal fare pratico delle loro mani, e oltre i fornelli, l’attenzione verso lo stare bene, sprigionando, in una lettura psichica, assets motivazionali che possono essere indicativi per orientarci verso una psicologia del benessere tesa a prevenire perturbazioni emotive che possono incistarsi in una psicopatologia della vita quotidiana (Freud, 1977).
Di certo non basta, e sarebbe fuorviante, semplicistico e riduttivo, cucinare bene per stare bene nel senso psicodinamico del termine, ma dalla cucina intesa come luogo metaforico e terapeutico per aprire la mente e dal riflettere sul nutrimento che si sprigiona in un cibo per pensare possiamo cogliere condensati psichici da interpretare, contenere e trasformare, per promuovere e tutelare il benessere psicologico individuale, familiare e collettivo. Da una parte lo psicoterapeuta, che dialoga con il paziente per aiutarlo a stare bene, dall’altra la persona che cucina (cuoco domestico o chef professionale), che utilizza le mani per dare piacevolezza e gioia, i quali, nella prospettiva generale del vivere al meglio la quotidianità dei nostri giorni, dialogano insieme, ognuno con il suo specifico linguaggio, alla ricerca di note comuni che sorprendentemente si direzionano sul bene dell’altro e della collettività. Lo chef che tritura, manipola, assembla gli ingredienti esprime nel piatto parti di sé, come ci ricordano le parole di Niki Nakayama (Chef’s Table, Netflix): “I miei piatti esprimono la mia personalità. Quando cucino ci metto tutta me stessa. Lo trasmetto alle persone che mangiano le mie preparazioni. Quando mangiano possono capire chi sono”.
Dunque, pazienti, uomini e donne che cucinano, bambini e ragazzi che, a seconda del loro stato emotivo, entrano in cucina ed esprimono nel loro specifico modo di manipolare gli ingredienti, nelle scelte, nell’allestimento della postazione e del tagliere, il loro modo di essere; a volte il loro disagio, altre i loro avanzamenti, altre ancora i loro arresti e le loro incertezze, dando luogo a una narrazione che dalle mani passa agli sguardi, alle intese, alle parole, come in Quanto basta, il film di Francesco Falaschi (Italia, 2018) che ha messo in rilievo la relazione terapeutica nel cucinare con pazienti speciali, come il protagonista Arturo, affetto dalla sindrome di Asperger.
Non sorprende, quindi, che queste note comunicative siano parte di un discorso, di una narrazione intima e autentica, che lega generazioni, tradizioni e valori culturali e che fa della cucina e, nello specifico, della téchne culinaria un linguaggio universale. Un linguaggio che possiede i suoi vocaboli (gli ingredienti), organizzati secondo le regole della grammatica (le ricette), della sintassi (menù e sequenza di come i piatti sono presentati) e della retorica (comportamenti conviviali). In questo percorso conoscitivo possiamo ipotizzare l’apertura di una metaforica dispensa della mente ed estrapolare da capienti ciotole, immaginate come solidi contenitori psicoaffettivi, gli ingredienti-vocaboli (concetti chiave), le regole (indicazioni per il benessere), la sintassi (avanzamenti procedurali nel tempo in relazione al ciclo di vita) e una nuova retorica (benessere individuale, familiare e collettivo), che parte dalle mani e arriva all’interno del sé. Il rito del cucinare è inteso nei tre elementi principali del: nutrire- curare affettivamente sé stessi e l’altro, trasmettere al sé e all’altro e condividere con la nostra dimensione interiore e con l’altro.
Il cibo non è quindi solo nutrimento, ma, nella messa in primo piano di un gesto quotidiano e universale, diventa anche veicolo di una ricchissima gamma di valori individuali e sociali uniti nell’asset psichico della ricerca della salute fisica e psicologica della persona e della collettività. L’amore per il cibo è infatti una storia di pazienza, di metodi e rituali, di trasmissione di valori, di condivisione, di rispetto delle storie generazionali, ma è soprattutto un fare con le mani, per tradizione prettamente femminili – ma, oggi, nell’evoluzione dei costumi e della società non solo appannaggio delle donne – che, miscelando acqua, farina e un pizzico di sale, hanno dato forma al pane come simbolo di cura, attenzione, amore, e mostrato la strada per ritrovare nelle ricette indicazioni di vita che fanno bene alla quotidianità del vivere. La mano, organo per eccellenza del tatto e della presa, accarezza, manipola, esplora, custodisce, dona, tanto da essere paragonata da Aristotele all’anima: «l’anima è come la mano, perché la mano è lo strumento degli strumenti» (Aristotele, 2008, pp. 507-8). Far lavorare le mani permette di far lavorare la mente (Montessori, 1999b), di agire concretamente sulla realtà e apprendere dall’esperienza sensoriale. In quest’ottica, a partire dal dito del bambino che indica la pasta lievitata della pizza e chiede: “Mamma, posso farla anche io?”, possiamo organizzare delle risposte dalle quali possono dipendere benessere, buone relazioni, fiducia, speranza, creatività, capacità di ricevere, di donare e gioia di vivere. Non a caso il laboratorio sulla cooking therapy da me condotto ha rappresentato l’Italia nella giornata mondiale della felicità del 2018 e durante il programma televisivo francese Télématin i bambini presenti alla trasmissione hanno scelto di fare la pizza, come piatto simbolo dell’appartenenza culturale e vitale del nostro paese.
Intesa in questa prospettiva, la cucina diventa un laboratorio terapeutico naturale, alla portata di tutti, con l’obiettivo di permettere alla mente di avvalersi delle potenzialità benefiche di un gesto consueto, che mescola insieme allo zenzero, ai pomodori e ai gamberi il benessere mentale dell’individuo, della famiglia e della società. Dando luce e valore significativo al mondare carote, sedano e cipolla per fare un ragù, alla composizione di una torta, allo zucchero a velo cosparso sui biscotti di pasta frolla, rintracceremo insieme elementi fondanti della psicologia evolutiva e della psicologia clinica, sia nella sua valenza educativa e formativa lungo le diverse tappe del ciclo vitale (infanzia, adolescenza, età adulta, vecchiaia), sia nella sua valenza terapeutica, che fa dell’occupazione culinaria una metodica psichica in cui il fare permette di sviluppare pensiero e potenzialità creative, di accogliere e contenere un sé fragile o ristrutturare un sé incrinato. Una sorta di pane quotidiano che, nelle diverse e infinite forme che possiamo dargli, fa della bontà del nutrimento il suo valore direttivo, e partendo dagli ingredienti base individuati in alcune combinazioni e fermentazioni naturali permette di articolare un nuovo modo di pensare alla cucina evidenziandone il suo valore formativo, educativo e terapeutico. Un ricettario specialistico, quindi, per la psiche, che prende forma a cominciare dall’apertura metaforica della dispensa della mente (cap. 1), selezionando e scegliendo alcuni contenitori psicoaffettivi specifici che possano permetterci di strutturare un dialogo congiunto tra psicologia e cucina in modo da poter realizzare un kit specifico di ricette-indicazioni per sé stessi, per la propria famiglia, per i propri pazienti, in cui la parola “cucina” sia espressione di un prendersi cura di sé stessi e degli altri (benessere in cucina), nell’attenzione specifica (benessere e mindfulness in cucina) a quello che si sta facendo, sul come, quando e perché farlo. È questa l’essenza della cooking therapy, che trasforma l’atto del cucinare in un vero e proprio strumento di riflessione e crescita personale, che va oltre la ricetta da realizzare e diventa un momento di training personalizzato, in cui dagli ingredienti si arriva direttamente al sé (cap. 2). In questa accezione la cottura viene metaforicamente intesa come un processo alchemico rigenerativo che a partire dal calore degli affetti genera riflessione interiore e consapevolezza del sé e dell’altro. Miscela di vita che scaldata da leve mentali dona al gesto quotidiano del tagliare le cipolle quell’andare oltre la meccanicità e, appropriandosi di ciotole viste come contenitori mentali e ingredienti considerati come forme vitali, diventa piacere e gioia nel preparare, miscelare, cuocere il pane della vita, affinché si sprigioni la fragranza del benessere (cap. 3) per tutti, grandi e piccini, buongustai e ascetici del gusto.
La cottura, intesa nella trasmissione del calore dell’affettività, diffonde, come il profumo inebriante del pane fragrante, l’odore del lievito di una vita di senso, che dà senso e diffonde senso e sapidità di sé, da assaporare in uno nuovo spazio cucina psicologicamente ristrutturato, nelle proprie abitazioni o nello studio del terapeuta. Dall’aroma del pane si sprigiona il sapore della vita. Dare e ricevere amore è il primo gesto simbolico e costruttivo di tanti altri gesti vitali.
Il libro si può acquistare qui