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L'autolesionismo è un fenomeno molto diffuso ma tenuto altrettanto nascosto nella sfera privata dei ragazzi, al punto che risulta difficile produrre statistiche valide che quantifichino la sua reale incidenza tra gli adolescenti. Tuttavia i ricercatori stimano che tra il 10 e il 40 per cento degli adolescenti, e un 10 per cento degli adulti, danneggiano se stessi fisicamente - di solito tagliandosi o bruciandosi la pelle.

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{xtypo_quote_left}nei casi in cui il dolore psicologico diventa travolgente - pensieri negativi che arrivano a cascata e non si fermano - si può sentire che un diversivo, anche se fa male, è l'unica soluzione disponibile{/xtypo_quote_left}

 

Nonostante questo, e in modo paradossale, l'autolesionismo in molti Paesi non viene considerato e affrontato con la necessaria attenzione. Ad esempio, non è ufficialmente riconosciuto dalla American Psychiatric Association (APA) come un disturbo mentale, e questo significa che, in base al particolare sistema sanitario americano, l'assicurazione non può coprirne il trattamento.

"Il sistema della salute mentale sta fallendo in riferimento a pazienti che hanno un problema evidente, per il quale hanno un urgente bisogno di aiuto" afferma Edward Selby, professore di psicologia a New Brunswick.

Selby, che ha pubblicato un articolo sul tema nella Clinical Psychological Review, appartiene a quel numero crescente di psicologi i quali credono che l’autolesionismo non suicidario dovrebbe essere incluso nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM), comprensivo di quella serie di disturbi psichiatrici che vengono presi in considerazione e utilizzati per le loro prescrizioni dai professionisti della salute mentale e dalle assicurazioni.

Dal momento che l'autolesionismo non è inserito in questa lista, non può essere estesa la copertura sanitaria a coloro che si tagliano, si bruciano o tendono a ferirsi in qualunque altro modo, i quali devono adattarsi ad altre diagnosi già esistenti, come il disturbo borderline di personalità, la depressione o il disturbo d'ansia, problemi che, sostiene Selby, hanno a malapena la metà della sua incidenza.

L'attuale quinta edizione del manuale - pubblicato nel 2013 e chiamato DSM-5 - definisce l’autolesionismo una condizione che ha bisogno di "un ulteriore studio", posizionandolo così ben al di sotto del riconoscimento necessario per attivare la copertura assicurativa, e per identificare e caratterizzare meglio la popolazione interessata e mettere a punto più efficaci di metodi di trattamento.

La ricerca di Selby, tra cui il suo più recente lavoro, "Il disturbo dell’autolesionismo non suicidario: Il percorso verso la validazione diagnostica e gli ultimi ostacoli", ha lo scopo di riempire spazi vuoti che stanno frenando l'APA, e di portare, come spera, al grande riconoscimento che tale disturbo a suo parere merita.

La spinta all’autolesionismo può sopraffare le persone che non si impegnano fino in fondo nel combatterlo. Ancora più evidente diventa il grande dolore che esso può causare. Ma nei casi in cui il dolore psicologico diventa travolgente - pensieri negativi che arrivano a cascata e non si fermano - Selby afferma che una persona può sentire che un diversivo, anche se fa male, è l'unica soluzione disponibile. "Provocando un certo tipo di dolore" dice, "cercano di sbarazzarsi di un diverso tipo di dolore".

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La maggior parte delle persone che si fanno del male non stanno cercando di uccidersi. Ma, sostiene Selby, esse diventano più inclini a prendere in considerazione o tentare il suicidio, successivamente. È questo un altro motivo, sostiene, per alzare il profilo diagnostico dell’autolesionismo.

Una ricerca recentemente pubblicata sulla rivista Pediatrics, basata sulle visite ai ragazzi effettuate al pronto soccorso degli ospedali, suggerisce che l’autolesionismo non suicidario sembra essere in aumento. Se tale constatazione è corretta, c'è motivo di sospettare che l'uso dei social media è tra le cause di questa tendenza. Prima che ci fossero smartphone e forum di discussione, i giovani che si tagliavano e si bruciavano avrebbero molto probabilmente mantenuto segreto il loro comportamento. Ma ora esistono comunità online in cui gli adolescenti promuovono tra di loro l’autolesionismo.

In realtà esistono scuole, continua Selby, all’interno delle quali l'autolesionismo è diventato "contagioso", come ad esempio una scuola superiore di Middletown, nel Connecticut: il distretto scolastico ha segnalato l'anno scorso che 31 studenti nell’ultimo periodo sono stati ricoverati in ospedale per comportamenti derivanti da problemi di salute mentale, i quali includevano il tagliarsi .

{xtypo_quote}Cercando soluzioni efficaci{/xtypo_quote}

Nel suo “Laboratorio psicologico e emotivo” alla Rutgers, Selby sta esplorando soluzioni concrete per i partecipanti alla ricerca sull’autolesionismo. Alcuni di questi metodi comprendono gli stessi smartphone che i soggetti a rischio utilizzano per andare online. 

Una app ancora sperimentale invita i pazienti a tenere traccia dei loro pensieri e sentimenti più volte durante il giorno - sono dati che possono essere particolarmente illuminanti sul giorni nei quali loro compiono atti di autolesionismo.

Selby stima che almeno la metà dei giovani che si tagliano e bruciano vogliono smettere di farsi del male e accoglierebbero con favore un aiuto che fosse davvero efficace. Il suo primo consiglio è che cerchino un adulto di fiducia e simpatetico, potenzialmente un insegnante o un’infermiera della scuola, che li possa guidare verso le cure di cui hanno bisogno. 

Un altro è trovare modi più costruttivi per deviare l'attenzione dal loro dolore emotivo. Selby afferma che anche giochi dello smartphone come Angry Birds o Tetris - o un diversivo a più basso valore tecnologico come il Sudoku o un cruciverba, potrebbero essere sufficienti per distrarre la mente di un ragazzo dall’autolesionismo.

"Questi espedienti possono aiutare a tenere l’attenzione lontana dal problema che si sta vivendo" conclude Selby, "dando ai ragazzi la possibilità naturale di calmarsi".

 

I materiali della ricerca sono disponibili sul sito della Rutgers University


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