Non ci si crede. Quando provi a spiegare, a chi non lo sa, che nella medesima casa circondariale, dietro le stesse sbarre, sebbene ovviamente in sezioni differenti, stanno ristrette a scontare la loro pena, 72 donne di diversa nazionalità e 66 uomini, i quali, tutti, sono lì ad espiare una condanna per reati a “riprovazione sociale”, vale a dire reati sessuali, la reazione immediata è di incredulo stupore.
Questi uomini accusati, a torto o a ragione, di reati infamanti, quelli che nel gergo penitenziario vengono chiamati “ sex offender”, rischiano di essere vittime, all’interno del circuito carcerario, di violenze indicibili da parte degli altri detenuti e per tale ragione vanno assolutamente “protetti”.
A Genova stanno protetti nel carcere, una volta solo femminile, di Pontedecimo. Questa singolare scelta logistica comporta che tutti gli sforzi per rendere il tempo dolente della detenzione meno inutile e penoso a Pontedecimo devono duplicarsi così come devono essere raddoppiate le attività trattamentali e gli spazi per svolgerle, oltre agli ambulatori medici, le piccole palestre, le aule scolastiche ed il luogo di preghiera.
Gli educatori devono sdoppiarsi e così anche i medici che pure sono numericamente carenti. I due blocchi, quello per gli uomini e quello per le donne dovrebbero essere identici, ma qui non vige la par condicio e cosi le donne, sebbene più numerose, subiscono una notevole carenza di luoghi di socialità.
Eppure gli spazi, almeno quelli esterni qui non mancherebbero ma sono scarsamente utilizzati. Anche il progetto, attuato anni fa grazie alla lungimiranza della ex direttrice Maria Milano e alla generosità dell’associazione Terra!, di fare coltivare ai ristretti degli orti sinergici, è rimasto ormai solo un prezioso ricordo.
Anche a Pontedecimo, va detto, uomini e donne, con o senza divisa, si spendono ben oltre l’orario e il mandato lavorativo per rendere meno insopportabile l’afflizione dei detenuti e per dare un senso al precetto costituzionale che prevede la rieducazione di chi è ristretto.
Ma le carceri restano sovraffollate, il personale è sempre insufficiente ed è molto difficile immaginare che le persone che vi stanno detenute possano uscirne migliorate.
Eppure chi auspica “ la galera” per qualunque reato, confondendo il giustizialismo con la giustizia, crede, stoltamente, che moltiplicare i detenuti ed i tempi di detenzione possa portare sicurezza e pace sociale, senza riflettere sul fatto che queste persone, private della libertà e costrette a covare rabbia e dolore in spazi angusti da condividere con altri “ colpevoli”, prima o poi usciranno e si mescoleranno con noi, “ uomini liberi” e dunque sarebbe bene, per noi, oltre che per loro, che scontassero la loro pena in modo da migliorarsi e non da abbruttirsi, possibilmente anche fuori dalle mure carcerarie.
Filippo Turati, alla Camera nel 1904, pronunciava queste attualissime parole: “Le carceri italiane rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale... noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti o scuola di perfezionamento dei malfattori”.
Oggi è pieno di politici e commentatori che invocano il carcere come fosse un balsamo contro i mali del mondo. Costoro dovrebbero, prima di parlare, trascorrervi dentro un bel po’ di ore. Come suggeriva Pietro Calamandrei “bisogna vederle, bisogna esserci stati per rendersene conto...”.
articolo precedentemente pubblicato da Repubblica