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Vengono quasi sempre accompagnati, nonostante le regole anti-pandemia che imporrebbero la riduzione delle presenze allo stretto necessario. Ma i loro accompagnatori, in effetti, sono spesso strettamente necessari.

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E non solo per questioni linguistiche, che non è affatto detto che il secondo sappia l’italiano un po’ meglio del primo, ed alla fine non si sa chi traduce chi, nè in quale lingua.

Vengono accompagnati perché si sa che in due si è molto più forti e resistenti, non solo in quanto doppio di uno L’accompagnatore o l’accompagnatrice spesso è apparentemente in gran misura dissimile dall’accompagnato/a. Li differenzia l’età, o il genere, la nazionalità o la fede oppure ancora il ceto sociale. A volte persino tutte queste cose insieme.

A volte il secondo è quasi un’ombra, resta muto, ma resta, solido, affidabile e inamovibile. A volte parla al posto del primo, per tutela che in parte si tramuta in prevaricazione. Spesso l’accompagnatore è un amico, un familiare, un fidanzato o un amante, un chiaro sostegno affettivo al di la del ruolo non sempre definito. A volte no.

Nei migliori di questi casi si tratta di un educatore o assistente sociale (figure comunque considerate di aiuto ma "istituzionali") in altri di meri interpreti semi sconosciuti.

Nelle ipotesi peggiori l’accompagnatore svolge una forma di controllo: può vestire i panni dello sfruttatore, o della maman, oppure del compagno maltrattante, del datore di lavoro o del padrone di casa rigorosamente "in nero", tutti sempre sotto mentite spoglie. A volte sono i clienti "affezionati" delle prostitute a prendere appuntamento in studio per trovare una soluzione per affrancarle dal racket e porre fine alla loro irregolarità.

Ma nella maggior parte dei casi l’accompagnatore è un sollievo, un sostegno, a volte persino una sorta di insperata nuova famiglia. Negli ultimi giorni una pimpante signora agée ha voluto assistere al colloquio con un mio giovane assistito richiedente asilo che lei e gli altri "colleghi" del loro circolo dove lui fa il volontario hanno "adottato" dopo averne apprezzato le doti e testato l’affidabilità.

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Lei stava lì, seduta accanto a lui, per infondergli muta sicurezza, ed in effetti alla presenza di lei la balbuzie prepotente del ragazzo si attenuava notevolmente e pure io tendevo a rasserenarmi contagiata e commossa da questa insolita amicizia.

Poco dopo sono arrivati due ragazzi tra loro coetanei che condividevano apparentemente solo l’età. Diversa nazionalità, diversa a fede, diversa l’educazione, diversissima la loro fortuna. Il cliente veniva corretto, sostenuto e pure strigliato, all’occorrenza, dal giovane accompagnatore che gli si rivolgeva con l’affetto severo di un improbabile fratello maggiore.

Quando, incuriosita, ho chiesto che rapporto li legasse hanno risposto entrambi ognuno dal suo punto di vista che si trattava di un "accompagnamento". Poi mi hanno spiegato con maggiori dettagli che la madre del più fortunato (mia vecchia cliente) aveva "adottato" l’altro arrivato in Italia da minore non accompagnato e sballottato da una comunità all’altra fino alla maggiore età che ha visto aprirsi le porte e le insidie della strada.

La mamma dell’accompagnatore, forse memore delle difficoltà della sua migrazione o semplicemente consapevole che la buona sorte seppure conquistata a fatica va condivisa, ci si era imbattuta e lo aveva letteralmente raccolto, gli aveva offerto casa e famiglia e ora pure l’avvocata.

Accompagnare, penso guardandoli, è molto più che un verbo, è una carezza, una speranza, una promessa, un sentimento, una scialuppa.

articolo precedentemente pubblicato da Repubblica


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