«Mi hanno rifiutato ». Dicono proprio così. Non ricevono solo il rifiuto ma ci si identificano. Non sono solo i destinatari ma l‘oggetto, o meglio il soggetto, di quel rifiuto. Loro sono il rifiuto che altri hanno incautamente decretato.
Mi hanno rifiutato. E tra le mani reggono, stropicciati dalla stretta, quei fogli di carta che sanciscono il diniego di qualsiasi forma di protezione in Italia.
Mi hanno rifiutato; questa frase può essere pronunciata con infinite sfumature di emozioni e sentimenti: con dolore, rabbia, vergogna, disgusto, paura. Tutte aleggiano nella stanza.
Ma nessuna pare avere sfiorato gli artefici di quei rifiuti.
Non importa il Paese di provenienza, se sono donne vittime di tratta, uomini torturati, o ragazzini precocemente divenuti adulti, non importa la partenza, il percorso, il bagaglio, la fatica, né la speranza: tutti "i rifiutati" la raccontano e ancor prima la vivono, apparentemente allo stesso modo questa decisione negativa che gli operatori più pietosi chiamano, in effetti, " il negativo" come fosse l’altra faccia dell’approdo, dell’accoglienza, dell’Europa.
Mi hanno rifiutato. Hanno rifiutato la mia identità, il mio dolore, la mia credibilità, la mia resistenza.
Mi vorrebbero quindi morto, mai partito, mai arrivato. Ma sono qui. Con un rifiuto, come un rifiuto. Mi si vuole allontanare dagli occhi, ricacciare via. Rifiutare.
La prima rassicurazione che viene spontaneamente da pronunciare è, ogni volta, " non è colpa tua". Come si fa con le vittime di violenza domestica o sessuale.
Ma per i profughi subito si aggiunge, a modo di maldestro conforto, come se fare parte di una maggioranza potesse in qualche modo rinfrancare: "succede a tutti o quasi".
Ma in realtà la maggior parte "di loro" non riesce neppure a partire e resta imprigionata tra macerie, miserie, violenze, calamità, deserti. Altri sono rimasti intrappolati in Libia, quel " paese sicuro" con il quale i nostri governanti stipulano accordi di denaro e sangue, e dove, ormai innegabilmente, imperversa da anni una guerra civile.
Altri muoiono in mare. Tantissimi. Molti di più di quanto le statistiche possano contare.
Chi approda è già un miracolo di vita, eroismo, fortuna ( se fortuna ancora si può chiamare questa tenace sopravvivenza) e irriducibile resistenza.
Ma a nulla è valso superare barriere e confini.
C’è sempre ancora un muro, inutile e perverso da abbattere. Piantato e frutto della mente degli umani, di alcuni umani. E sembrano ormai mancare le forze e la speranza.
Tra le regole del viaggio preziosamente raccolte da Alessandro Leogrande nel suo necessario libro " la frontiera" si trovano queste: " mantenere viva non la speranza, che in tante situazioni è persa, ma la capacità di uscire fuori dalle situazioni passo dopo passo momento per momento… Mantenere la propria dignità a tutti costi… Avere fortuna… Avere coraggio".
articolo precedentemente pubblicato da Repubblica