Respirate e contate, se comincerete a dubitare pesantemente della sensatezza di ciò che vado a raccontare. La mia è una personalissima digressione su una marginale sfumatura del rischio cosiddetto educativo che meriterebbe forse pensieri più consistenti. Ma per quello ci sono altri, oggi, in questa sala. Io sono qui ad altro titolo e intendo abusarne. Perché il lavoro dell'educatore di comunità senza il gusto delle piccole cose diventa routine e assistenza.
Allora. Cominciano ad essere parecchi i convegni che hanno un titolo tipo quello di oggi. Si sente parlare sempre più spesso di rischio educativo e mi accorgo che è come se fosse un tema nuovo, recente. E in sostanza lo è: pare infatti che educare sia diventato rischioso solo da dieci, quindici anni a questa parte. Prima, invece, doveva essere uno spasso. O forse è solo che da dieci, quindici anni a questa parte, la precarietà delle condizioni generali di vita e la criticità delle situazioni che ci vengono presentate da un lato e i paletti, le valutazioni, le restrizioni, la normativa dall'altro si sono fatti asfissianti e, per certi aspetti, caratterizzanti. E pare che nessuno rischi quanto l'educatore, in particolare di comunità. Mah.
{xtypo_quote_right}
Rivendico il consapevole e attivo esercizio di quella che a mio avviso è una dote indispensabile dell'educatore, ovvero la creatività relazionale
{/xtypo_quote_right}
Eppure è strano, perché di solito i paletti tranquillizzano, perché definiscono e circoscrivono, quindi contengono. Inquadrando le responsabilità, dovrebbero inquadrare anche le ansie. A noi invece succede il contrario, perché il nostro lavoro ci conduce spesso a camminare fuori dal seminato e allora come fai un passo rischi di ritrovarti nella rischiosa condizione di correre dei rischi. Verrebbe quasi da star fermi. Però a quel punto converrebbe di più mettersi su un cubo di legno, davanti al Castello Sforzesco, vestiti di cartapesta per fare le finte statue che chiedono un soldo ai turisti che passano. Almeno quella è arte.
Quindi che si fa?
Sapete, mi vengono in mente certi addetti alla sicurezza che mi è capitato d'incrociare, ai corsi di formazione, che la prima e unica domanda che ponevano al formatore era: ma se io non intervengo, finisco in galera? Alla risposta negativa li vedevi rilassarsi all'istante. Altre domande? No, grazie, a posto così.
Ecco. Io non vorrei diventare questa cosa, facendo l'educatore di comunità, anche se comincio a pensare che questa sia una temibile direzione in atto. Perciò rivendico il consapevole e attivo esercizio di quella che a mio avviso è una dote indispensabile dell'educatore, ovvero la creatività relazionale. Perché va bene, i rischi vanno contenuti, ma non possono elevarsi a principale cartina di tornasole. Non nel nostro ambito, perlomeno. Dirò di più. I rischi vanno guardati in faccia, perché se educare è rischioso, è anche vero che rischiare è educativo, rischiare è crescere. Azzardare è un'altra cosa.
Ma poi rischiare cosa? Pare che ogni virgola sia diventata una questione di vita o di morte. Non va bene, serve un ansiolitico. Quindi adesso isoliamo uno dei rischi che si possono correre nel nostro lavoro e che a me pare piuttosto sottovalutato e per farlo partiamo dalla mia voce, che può piacere, può non piacere, boh. Facciamo che vi piace, così mi fate contento.
Bene, vi posso assicurare che per come la sento io, mentre parlo, la mia voce è molto più belladi come la sentite voi. Lo so, perché quando mi è capitato di ascoltarla registrata ci son rimasto male. Ma come? É così che suono? È questo che sente chi mi ascolta? Ma no, allora la gente non può capire davvero chi io sia convinto di essere.
Insomma, sento la mia voce registrata e non mi riconosco. Credevo di essere una cosa e invece sono un'altra e lo scopro soltanto quando mi fermo ad ascoltarmi, quindi a guardarmi da un punto di vista dislocato.
Eccolo, uno dei rischi più seri che può correre un educatore. Quello di non riconoscersi, di scoprire che la realtà non corrisponde alla convinzione, alle intenzioni.
Corriamo quotidianamente il rischio di non riconoscerci. Nelle intenzioni e nei risultati.
Come quella volta che Zaccaria doveva iniziare la prima elementare. Primo giorno di scuola, sta andando, insieme agli altri, che però sono già dei veterani. All'educatore parte il panegirico, perché non può resistere alla tentazione di promuovere anche en passant la crescita, la maturazione, l'apertura, la socializzazione. E allora attacco che, caro Zaccaria, mi raccomando, non startene lì nel tuo angolino, fai amicizia, vedrai che la scuola è bella, e le maestre sono lì per te, ascolta bene quello che ti dicono, vedrai che imparerai tante cose, e se hai voglia di chiedere, di fare domande, falle, alza la mano, eh, hai capito? Hai capito?
{xtypo_quote_left}
Vi prego di credere che il mio discorsetto a Zaccaria partiva da altro. Insomma, non era mia intenzione. Pensavo solo di fare il mio dovere di buon educatore anche un po' pedante, indicando percorsi, spronando all'apertura
{/xtypo_quote_left}
L'educatore in piena fase agonistica.
Insomma: rischio! Perché Zaccaria è un tipetto un po' particolare, bisogna stare attenti a dargli la carica a molla, capace che poi va dove vuole lui...
Comunque, dice che ha capito, e si avvia, flemmatico.
Poi vado a prenderli, all'uscita. E siamo sul pulmino.
- Allora, Zaccaria, com'è andata?
- Bene.
- Sì? Ti è piaciuto il primo giorno di scuola?
- Sì. Ho anche fatto una domanda alla maestra.
- Ah! E cosa le hai chiesto?
Suspence.
- Le ho chiesto cosa sono i capezzoli.
Io sbando, meno male che siamo su una strada che ho percorso mille volte e il pulmino può farla anche da solo. No, dai, no… lo sapevo… lo sapevo… ufff!
Gli altri si accoppano dal ridere.
- Ma come? Ma ti pare? - e lo cerco nello specchietto retrovisore.
- Me l'hai detto tu che era giusto fare domande se volevo farle.
- Sì, ho capito, ma cacchio, il primo giorno di scuola, e la prima domanda che fai alla maestra è cosa sono i capezzoli?
Lui fa spallucce.
- Eh, volevo saperlo.
Oggesù. Io sto sudando, mentre gli altri ridono come pazzi.
- Cioè spiegami, di cosa stavate parlando, che ti è venuta una domanda del genere?
- Boh. Io ho detto che tu mi hai detto che posso fare le domande e io l'ho fatta.
- Ah, pure! Così adesso la maestra penserà che io ti ho detto di chiederle cosa sono i capezzoli?
Diommio, già m'immagino l'imbarazzo al primo colloquio. Questa cosa la maestra mica se la dimentica. Ah, sì, lei è l'educatore, quello che voleva sapere quella cosina là, eh?
No, no, devo farmi trasferire, cambiare aria...
Intanto siamo quasi arrivati in comunità e devo ancora togliermi un pensiero.
- Zaccaria?
- Eh?
- Ma lei, la maestra…
- Eh?
- Ma lei, cosa ti ha detto?
- Cosa?
- No, dico, quando le hai chiesto la roba dei capezzoli, lei cosa ti ha risposto?
- Niente, me l'ha spiegato.
- Ah.
E dicono che la scuola non funziona...
Quindi, ricapitoliamo: vi prego di credere che il mio discorsetto a Zaccaria partiva da altro. Insomma, non era mia intenzione. Pensavo solo di fare il mio dovere di buon educatore anche un po' pedante, indicando percorsi, spronando all'apertura, alla curiosità così come vi prego di credere che il risultato atteso non era esattamente l'eventualità che Zaccaria tornasse subito anatomicamente più competente.
No, davvero, quella volta non mi sono riconosciuto né nelle intenzioni né nei risultati. Credevo una cosa, ne è venuta un'altra. È proprio vero che chi educa rischia.
Ora, se i conti non vi tornano non innervositevi: poi ripartiamo da qui.
Ah. Quanto al primo colloquio con le insegnanti, se volete sapere com'è andata, ne parliamo la prossima volta.
Testo letto nel corso del convegno “Chi educa, rischia” per i 40 anni della Coop. Soc. Comin,
tenutosi a Milano presso al Sala Alessi di Palazzo Marino il 27.05.2015
La seconda parte verrà pubblicata domani