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Sono andato a prenderla alla scuola dove avrebbe frequentato la seconda media a pochi giorni dal suo arrivo in comunità, parlo di fine febbraio ed era una giornata di pioggia. Pochi secondi dopo essere salita in macchina si è tirata su la manica del braccio e mi ha fatto vedere dei tagli, sottili e superficiali, graziosamente allineati: “Guarda cosa mi sono fatta” mi ha detto, “sai? Io sono depressa”. La macchina era già in moto e la scuola distava pochi minuti dalla Comunità per cui non ho ritenuto necessario fermarmi, mi sono girato verso di lei le ho detto con un tono dolce che ricordo ancora oggi: ma no, tu non sei depressa, sei solo triste, tanto triste, quando arriveremmo a casa ti pulirò il braccio e mi racconterai un po', va bene?

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Io avevo iniziato a lavorare da solo 2 mesi nella comunità femminile di Arimo, “Casa Miriam” dopo una esperienza di 4 anni in una comunità maschile che accoglieva principalmente inserimenti di tipo penale, ragazzi arrabbiati perlopiù quasi maggiorenni, con l'aggressività e l'eccesso a fior di pelle.

Invece dopo qualche settimana ancora sono diventato l'educatore di riferimento di questa piccola ragazzina, di questa “bambina”, si perché a 12 anni si dovrebbe ancora essere bambini, lo stesso per lei anche se fumava sigarette, spinelli e diceva di sé di essere depressa e terribile.

L'inserimento è avvenuto su decreto provvisorio del Tribunale per minorenni in seguito all'indagine del Servizio Sociale che riteneva ci fosse un grave rischio evolutivo per la minore.

Il conflitto genitoriale in seguito alla separazione dei coniugi era altissimo ed essi non riuscivano a mettere in atto strategie educative e di ascolto dei bisogni della figlia in modo coerente e collaborativo. La minore era diventata oggetto conteso e in questa voragine aveva assunto il ruolo di regista inesperto delle proprie sorti destreggiandosi nella manipolazione degli adulti verso i quali era pressoché invisibile, mettendo in atto comportamenti rischiosi e agiti autolesionistici.

Entrambi i genitori, per diversi motivi, difficoltà o fragilità , colpevolizzavano la figlia perché sostanzialmente incapace di gestire “l'autonomia e responsabilità che le erano state concesse”.

In comunità la richiesta per l'inserimento era arrivata con un paio di mesi di anticipo, e le relazioni che la precedevano descrivevano una ragazzina allo sbando, ingestibile con gravi problemi di controllo dell'umore, a rischio di agiti trasgressivi e antisociali.

Noi educatori sappiamo che tutto questo allarme al quale ha portato gli adulti aveva un solo obiettivo: accendere una luce grande quanto un faro su una scogliera per farsi vedere, farsi trovare, farsi curare e impedire, dopo l'affondare della nave, lo sfracellarsi della scialuppa di salvataggio con un'unica passeggera tanto giovane quanto piccola.

Cosa avrebbe fatto? Si sarebbe fermata? Avrebbe retto la comunità?

Per prima cosa ha scelto qualcuno e si raccontata, si è fatta curare e ha iniziato a verificare la solidità del territorio a calpestare, dopo tanto tempo passato nel mare mosso non è facile camminare sulla terra ferma.

Ma dopo la cura e l'accoglienza, finita la novità arriva la quotidianità, il ritmo, la cadenza , le regole e gli impegni; e adulti che chiedono, scrutano, che devono decidere, che vogliono decidere ma soprattutto che vogliono farla ritornare ai suoi 12 anni, perché ne ha 12 non 16 e quindi deve smettere di fumare, e deve fare i compiti e studiare, e allora ricomincia la bufera, il mare è di nuovo mosso e non sa se improvvisare un zattera e partire. Ci prova ma non parte, e mette su un po' di chiasso, e piange e dice che scoppierà, ma non scoppia. Invece si ferma, regge la comunità e la fa sua perche in questo luogo è costretta a essere se stessa, a guardarsi allo specchio e fare i conti con la realtà, con il fatto che potrebbero, se vuole, non servirle più le maschere.

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Con il passare dei mesi in comunità, lei pensa, rielabora e ricompone insieme agli educatori quanto sia successo a casa, i rischi che aveva corso, ricostruendo la propria autostima e acquisendo delle consapevolezze che difenderà. I genitori che non hanno ancora fatto questo esercizio aspettano delle trasformazioni quasi magiche nella “figliola ribelle”, ancora troppo titubanti per fidarsi e mettersi in discussione , non accettando ancora di riconoscere le proprie responsabilità, e per questo  pretendendo che la comunità ripari il guasto e riaccenda la macchina per tornare a casa.

Ma la ragazzina di 12 anni (solo dopo ritornare bambina possiamo concederle di transitare verso la sua crescita) non ci sta, non accetta di essere responsabilizzata per l'allontanamento, non è colpa sua non essere a casa, ed è lei a riempire di significato le parole del Tribunale, rimandando a chi l’accusa le proprie responsabilità come genitori e come adulti pronunciando le seguenti parole: “Ma la vogliamo smettere? Quello che è stato fatto è giusto, io ora sto bene, ma stavo male. L'Assistente Sociale non ci ha ingannati, ci ha aiutato e smettiamola di dire che tutto si poteva fare a casa, era necessario separarci, fermarci. Io non voglio tornare a casa, al meno non così, perché ho paura di stare male di nuovo, di non avere genitori forti, che crollano quando mi devono dare dei limiti.”

Come si fa, come operatore che certamente ha lavorato per lo sviluppo di tali consapevolezze a non rimanere pietrificato, scosso da un lungo brivido nel momento in cui quelle parole riempiono la stanza pronunciate con convinzione e sicurezza da una ragazzina di ora 13 anni?

Questo movimento ha un effetto dirompente sui genitori che si vedono costretti, non dal Servizio Sociale o un operatore qualunque, ma dalla propria figlia a gettare anche loro le maschere a guardarsi insieme nello specchio.

Nel frattempo la comunità ritiene di avere concluso il proprio lavoro, perche lei dimostrando una capacità di resilienza notevole ed un'ottima adesione al percorso comunitario, può riprendere il proprio percorso di crescita in modo armonico se seguita da adulti competenti ma non necessariamente professionisti della relazione di aiuto.

Spinti dalla sua capacità di immaginarsi in scenari diversi spingendosi oltre la solita prudenza degli adulti e presso atto , insieme al Servizio Sociale e il Tribunale, del fatto che il rientro presso uno dei genitori non era ancora possibile e a breve termine neanche auspicabile abbiamo riflettuto sulla possibilità di fare un passo al fianco come comunità e riflettere sulla possibilità di un passaggio verso l’affido etero familiare, riconoscendo in esso la opportunità per la ragazzina di usufruire di un contesto meno normativo e maggiormente personalizzato. La possibilità che tutto venisse fatto attraverso l’affido professionale ci ha riassicurati riguardo alla rete che avrebbe supportato i futuri genitori affidatari.

Dopo un anno di comunità, una minore allontanata dalla propria famiglia ha evidenziato “dall'interno” se così lo possiamo dire, il senso di tutto il provvedimento messo in atto dai Servizi Sociale e il Tribunale, esponendo ai propri genitori il risultato dell'esercizio di protezione ed elaborazione del trauma svolto all'interno del percorso comunitarioperché ha accettato di vivere non più come una piccola adulta convinta di sapere badare a se stessa, ma accetta che siano gli adulti a occuparsi di lei, della tredicenne, perché la fiducia negli adulti è stata in parte restaurata. Da un parte è chiara la fragilità dei propri genitori e nonostante l'affetto lei ora può accettare che possano, che debbano essere altri gli adulti a occuparsi di lei, e quindi perché non andare in affido?

Anche per i genitori i tempi sono finalmente maturi per la comprensione dello stato complessivo dell'intervento e accettano di partecipare a un percorso di consulenza pedagogica I genitori riescono ad accettare di non potere garantire attualmente alla loro figlia quello di cui ha bisogno, spostando finalmente l'attenzione sulla responsabilità dell'allontanamento su se stessi. L'affido si presenta e si accoglie come la possibilità di disporre e usufruire del tempo necessario per prepararsi e per crescere, per tentare.

Credo sia importante tenere conto del fatto che la “spinta in avanti” di lei o di tanti ragazzi e ragazze è il risultato di un forte vissuto di precarietà e incertezza che fa crescere in loro il convincimento che gli adulti siano inaffidabili per cui è necessario che siano loro a occuparsi di se stessi convinti di esserne in grado, compiendo così una serie di azioni falsamente “adultizzanti” tendenti a validare questa convinzione.

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In questo caso in particolare, la esperienza dell'inserimento in comunità oltre a frenare questa spinta, ha instaurato forse per la prima volta in tanti anni un vissuto di sicurezza e protezione che ha consentito il cessare delle ostilità contro se stessa. Lo scandire dei tempi, l'attribuzione di senso alle azioni, il ripristino della fiducia nelle relazioni e quindi l'acquisizione di consapevolezze e autostima le hanno permesso di riconoscere se stessa non più come la figurina di combattimento allestita per la sopravvivenza ma finalmente come una ragazzina al sicuro, curiosa e desiderosa di vivere esperienze sane e diverse proposte, gestite o finalmente monitorate e approvate dal mondo degli adulti.

Solo un luogo \ tempo \ spazio altamente caratterizzato dalla coerenza fra significati e azioni come la Comunità Educativa può attivare, in un tempo ridotto, le condizioni per un tale cambiamento.

Un cambiamento così radicale che solo un paio di mesi fa, poco prima delle sue dimissioni l'ho vista ballare il tango sui trampoli e inseguire sul palco altri ragazzini sopra un monociclo; per questo credo fortemente in quel che Claudia, la mia collega di comunità spesso mi ripete: le nostre ragazze non sono abituate a sognare, e noi dobbiamo farlo al loro posto.

Gabriel Jorquera
Educatore e Mediatore Interculturale, lavora da 6 anni come educatore di comunità.

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