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È un gioco, anzi meglio, un esperimento che facciamo quando andiamo nelle scuole insieme con il mio amico illustratore Lorenzo Terranera. Prima diciamo ai pargoli di disegnare le loro paure e dargli un colore.

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La più gettonata — e colorata — resta la paura, declinata in modi diversi, di non essere accettati e dunque di non essere: invitati a una festa, far parte di una squadra, voluti bene dai compagni, apprezzati dai genitori, o belli a sufficienza.

Ma si affrontano e disegnano anche altre paure comuni o bizzarre: la fobia degli insetti, del buio, della morte, dell'allenatore, fino ad arrivare a quella non disegnabile e dunque scritta in giallo; "bestemmiare". E alla nostra richiesta di spiegazioni il piccolo risponde sbrigativo e stupito da tanta curiosità che la sua è la personalissima paura di farsi "scappare una bestemmia" peggio ancora se in chiesa.

Dopo aver colorato le paure, anche più strambe, chiediamo ai giovanissimi ascoltatori di pensarne altre: gli suggeriamo di immaginare di dover scappare, di punto in bianco, a causa di qualche calamità naturale o violenza, dalla propria casa e dal proprio paese e di disegnare con noi uno zaino o una valigia che contenga gli oggetti più cari dei quali non si separerebbero mai, per utilità o affezione, che vorrebbero portare con se' nella fuga.

Si tratta di una scelta dolorosa selezionare, in una manciata di minuti perché il pericolo è imminente, poche cose, le più preziose, che possano stare in una borsa, col panico in gola. È quello che succede, spieghiamo loro, a molti loro coetanei nati in Paesi meno fortunati, quando per alluvioni, guerre o altri disastri sono costretti a fuggire.

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I bimbi, dopo qualche secondo di riflessione, mettono di tutto in quella valigia fatta di matita: giochi, telefono, libri, pennarelli, cibo, orsetti di peluche, quaderni, documenti e fotografie.

Scorgiamo tra i disegni anche un crocifisso, solleviamo lo sguardo sul piccolo proprietario-disegnatore e scopriamo che è lo stesso che aveva paura di bestemmiare. In risposta al nostro sguardo interrogativo esclama « beh, chiaro, io sono credente ».

Penso spesso a quest'esperimento, che riesce sempre perché i bambini sono portatori sani di quel naturale vaccino contro il razzismo che è l'empatia.

Penso a quelle valigie disegnate, a quelle paure e nostalgie solo immaginate perché ritenute lontane mille miglia da noi. Ci penso continuamente dal 14 agosto scorso, da quando molti di noi sono stati costretti a scappare in ciabatte mentre preparavano il pranzo, da quella che era la loro casa.

Ci penso ancora di più da quando ho conosciuto Iris e alcuni degli altri sfollati del Ponte, che quella valigia disegnata, dovranno presto riempirla. Un'angoscia neppure immaginabile: vedere la propria casa integra e non poterci entrare.

Claudio, tenendosi la testa tra le mani, l'altra sera mi confessava che senza documenti si sente "nessuno" perché non riesce, nei vari uffici pubblici e nelle trappole delle nostra burocrazia, a dimostrare la sua identità.

Ed è incredibilmente la stessa pena, almeno una parte, che provano tutti gli sfollati del mondo, compresi i profughi che arrivano via mare. Sarà per questo che sotto il ponte non può sopravvivere nessuna forma di razzismo.


articolo precedentemente pubblicato da Repubblica


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