Di loro dicono che rubano i bambini, che non bisogna fidarsi anche se si fingono amichevoli, anche se sono donne disarmate e all'apparenza ben intenzionate, ché in realtà complottano sempre contro i tuoi interessi.
Molti di loro sono stati insultati, anche pubblicamente, altri addirittura aggrediti fisicamente.
Se poi sono loro, di loro iniziativa, a bussare alla tua porta, si dice che non convenga farli entrare in casa, perché sono capaci di trascinare in disgrazia la famiglia e rovinarti l'esistenza.
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Come tutti i pregiudizi quelli che riguardano gli assistenti sociali sono frutto di ignoranza, traggono talvolta spunto da fatti reali ma gonfiati a dismisura, generalizzati e depauperati di logica e contesto fino a divenire vere e proprie leggende metropolitane.
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Non sto passando in rassegna alcuni dei peggiori luoghi comuni contro rom e sinti, né le nefandezze delle quali sono spesso vittime, ma mi riferisco ai non meno perniciosi pregiudizi duri a morire, adottati ai danni di assistenti sociali, psicologi ed educatori.
Come tutti i pregiudizi quelli che riguardano gli assistenti sociali sono frutto di ignoranza, traggono talvolta spunto da fatti reali ma gonfiati a dismisura, generalizzati e depauperati di logica e contesto fino a divenire vere e proprie leggende metropolitane.
Chi li ha visti all'opera sa invece che, salvo, come sempre in ogni ambito, rarissime eccezioni, gli assistenti sociali sono capaci di opporsi alle sventure altrui con ostinata abnegazione e instancabile professionalità.
Spesso anche oltre l'orario e gli obblighi lavorativi.
D'altronde, chi fa dell'assistenza una professione sa che non può arginarla solo a mestiere, ma diventa passione faticosamente contenibile.
Anche perché nel sociale, si sa, mancano i soldi e quindi, a catena, manca personale, mancano in numero sufficiente educatori, interpreti, mediatori e psicologi e tutto quell'esercito di figure professionali indispensabili, quando si tratta di sostenere una persona nella sua interezza e non solo di risolvere singoli problemi.
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Recuperare un'esistenza, restituirle fiducia in sé e negli arisorse, lavoroltri, riconoscerne e tutelarne la dignità, come auspicato e sancito dalla nostra Costituzione, è uno dei compiti più ambiziosi e gratificanti ai quali una società e singoli operatori possano aspirare.
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D'altronde l'investimento nella «persona», sia essa una donna maltrattata, un minore in abbandono, un figlio conteso, una famiglia in momentaneo disagio, una vittima di tratta, un cittadino senza dimora, un rifugiato, un ex detenuto, un disoccupato o un disabile, è un investimento oneroso e a lungo termine, ma mai in perdita.
Recuperare un'esistenza, restituirle fiducia in sé e negli altri, riconoscerne e tutelarne la dignità, ovvero «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese», come auspicato e sancito dalla nostra Costituzione, è uno dei compiti più ambiziosi e gratificanti ai quali una società e singoli operatori possano aspirare.
L'errore dovuto all'eccessiva mole di lavoro e di responsabilità è una possibile eventualità che produce a volte conseguenze incalcolabili.
Inescusabile è invece il taglio di risorse che rende l'errore inevitabile, la miopia di chi pensa che raddrizzare un'esistenza sfortunata sia una perdita di soldi ed energie e non il migliore degli investimenti possibili, oltre che un dovere costituzionale, perché rimettere in piedi una persona a terra vuol dire permetterle domani di camminare da sola senza «gravare» su nessuno ed anzi consentendole di diventare risorsa.
Chiunque di noi abbia assistito al miracolo prodotto da una mano tesa, chiunque abbia potuto ammirare il prodigio che si compie quando, con l'aiuto di terzi, il vento delle sventure inizia a cambiare verso, capisce intimamente il senso di quel compito affidato dai padri costituenti alla Repubblica con il secondo comma del perfetto articolo 3.
Gli assistenti sociali, la maggior parte di loro, lo conoscono bene e sanno di fare una delle professioni più faticose e totalizzanti; sarebbe giusto consentire loro di svolgerla senza ulteriori inutili ostacoli, né indecenti tirchierie.
articolo pubblicato da "La Repubblica - Genova"