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Quando l’inserimento in comunità di un minore avviene dopo un serio percorso di approfondimento relativamente alla crisi familiare in atto e al danno subito dal bambino spesso è compreso e riconosciuto anche dai genitori come protettivo della relazione tra loro; certamente non potranno condividerlo , ma nei fatti non lo ostacoleranno più di tanto.

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La comunità, che è primariamente un luogo protettivo, può e deve quindi avere un suo specifico compito quale creare un clima di sicurezza e ascolto, e può permettere al minore di vivere una esperienza correttiva nella quotidianità

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Durante una supervisione alcuni operatori piemontesi hanno raccontato la loro esperienza di allontanamento di due sorelline che abitavano in una cascina. L’allontanamento era stato organizzato e preparato , informando i genitori e gli operatori avevano chiesto anche l’aiuto dei vigili , dovendosi recare in campagna a prendere le bimbe. Dopo proteste e tentativi di resistenza alla fine i genitori accettano di accompagnare le bimbe in comunità. Parte il corteo delle tre auto : operatori con le bambine, famiglia, vigili di scorta. Ad un certo punto l’auto della famiglia segnala agli operatori di fermarsi: i genitori informano che i vigili sono scomparsi nel traffico. Gli operatori sono sconfortati, ma il padre stesso dice: “avanti, vi seguiamo.” E l’inserimento in comunità avviene ...

Questo esempio mi sembra esprima con chiarezza come i genitori siano in grado di percepire che, fermando la violenza con un intervento che ai loro occhi appare altrettanto violento, si mira a proteggere le relazioni, non semplicisticamente a togliere un figlio proprio a loro perché “ sono cattivi” . Le famiglie con dinamiche di maltrattamento non chiedono aiuto, ma si trincerano, lo sappiamo, in negazioni assolute e spesso in giustificazioni incredibili ( un papà, parlando del grande livido sulla fronte della figlia, assumeva la responsabilità di averglielo fatto, ma involontariamente: era nel lettone e lui girandosi nel sonno l’ha colpito con l’orologio che aveva al polso....). Molti genitori dubitano di poter diventare migliori o di poter sviluppare altre competenze personali. Hanno la sensazione di non poter influire sul corso delle loro vite e vivono come se fossero condannati a subire i condizionamenti che imposti dall’esterno. Queste coppie spesso, oltre alle loro vicende personali portano in sé la storia dei numerosi interventi sociali di cui sono state oggetto durante infanzie difficili e che le hanno nel bene e nel male segnate. È spesso in rapporto alla loro vicenda che reagiscono , mostrando scarsa motivazione a collaborare. Rifiutare l’aiuto proposto diviene allora un modo di conquistare un sentimento d’identità e di differenziazione. Quel “no”, molto spesso goffamente articolato, afferma Pregno, può essere considerato come un feedback competente, una sorta di “soluzione” rispetto a un vissuto di passività e fallimento. Infatti la negazione delle dinamiche disfunzionali non è assolutamente prova del fatto che stanno bene così, che non desidererebbero essere e vivere in un clima relazionale e affettivo diverso, ma è piuttosto l’estremo tentativo di riconoscersi capaci di dire e affermarsi. È proprio qui allora che si gioca la possibilità che gli interventi coatti aprano porticine di speranza e motivino al cambiamento i genitori, scoprendo le risorse bloccate.

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La comunità, che è primariamente un luogo protettivo, può e deve quindi avere un suo specifico compito quale creare un clima di sicurezza e ascolto; inoltre può facilitare il processo di accompagnamento e collaborazione ad un lavoro clinico specifico e infine può permettere al minore di vivere una esperienza correttiva nella quotidianità .

Il primo obbiettivo fa riferimento alla necessità di lavorare sui codici interpretativi, sul sistema dei significati. Felicity De Zulueta sottolinea al proposito che “le azioni e le reazioni degli uomini dipendono molto di più dal significato dato al fatto che dal fatto stesso” per questo motivo l’ascolto e l’accoglienza in comunità devono portare a sostenere la necessità di affrontare un intervento che tratti gli effetti del trauma.

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Per spiegare il vissuto del bambino traumatizzato, anni fa, Marinella Malacrea faceva ricorso ad una metafora: i soggetti vittimizzati è come se fossero stati tenuti sott’acqua dall’evento traumatico e quindi non potendo respirare più con con i polmoni hanno sviluppato un altro modo di respirare hanno , per esempio, sviluppato le branchie … non basta togliere l’ esposizione al trauma perché risalgano in superficie e riprendano a respirare con i polmoni: risalgono, ma non sanno respirare. Bisogna lavorare con loro su più fronti per recuperare le abilità perse e curare le ferite!

Ecco allora l’ importanza di attivare un percorso specialistico che vada a dare significato a quanto successo e contemporaneamente si prenda cura di valutare le risorse genitoriali per comprendere la trattabilità clinica dei legami familiari. In quest’ottica è allora facilmente comprensibile come l’allontanamento e il collocamento in comunità si inseriscano a pieno titolo in un percorso di cura e attenzione verso tutti i componenti la famiglia.

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Se dunque l’allontanamento è uno strumento di intervento utile per proteggere i minori è altrettanto importante riconoscere quanto è faticoso e doloroso da attuare e da vivere. Può tuttavia diventare un utile momento di passaggio. L’equipe che vigila sul rispetto dei tempi e scandisce le fasi del lavoro garantisce che la comunità non si trasformi nel “sostituto” della famiglia. Là dove questi paletti vengono caparbiamente tenuti e rispettati la nostra scommessa sulla possibilità di interrompere una catena generazionale distruttiva diventa vincente …

Una ragazza accolta in comunità all’età di 11 anni, dimessa dopo un anno e accompagnata in una comunità sostituiva a causa della grave inadeguatezza dei genitori, a distanza di molti anni, alla fine di un percorso scolastico di successo scrive ai suoi vecchi educatori “...secondo alcuni studi il calabrone non può volare perché la sua larghezza alare non è proporzionale alla sua grandezza corporea…. ma il calabrone non lo sa, perciò lui continua a volare. “ (Igor Sikorsk)

... e la scommessa può essere vinta.

Estratto del saggio: "Protezione dei figli e cura dei legami familiari"
pubblicato da Ubiminor rivista

Paola Covini
Psicologa e psicoterapeuta. Docente presso l’Università Cattolica di Milano nella facoltà di Psicologia.

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