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Per gentile concessione dell'autore e dell'editore, pubblichiamo l'introduzione del volume "Costruire l'adolescenza. Tra immedesimazione e bisogni" di Pietro Roberto Goisis (Mimesis edizioni, acquistabile qui). In coda, la presentazione di Stefano Bolognini e l'indice del volume.

20150205 goisis

 

Introduzione

La costruzione di un amore spezza le vene delle mani, mescola il sangue col sudore, se te ne rimane.
La costruzione di un amore non ripaga del dolore, è come un altare di sabbia 
in riva al mare.
La costruzione del mio amore, mi piace guardarla salire, come un grattacielo di cento piani o come un girasole.
Ed io ci metto l'esperienza, come su un albero di Natale,
come un regalo ad una sposa,
 un qualcosa che sta lì e che non fa male.
E a ogni piano c'è un sorriso, per ogni inverno da passare, a ogni piano un Paradiso da consumare.


Dietro una porta un po' d'amore per quando non ci sarà tempo di fare l'amore,
per quando farai portare via la mia sola fotografia.
E intanto guardo questo amore che si fa più vicino al cielo, come se dopo tanto amore bastasse ancora il cielo.
Son io, son qui e mi meraviglia, io qui stretto fra le mie braccia, e no, son proprio io, lo specchio ha la mia faccia.

E la fortuna di un amore, come lo so che può cambiare; dopo si dice l'ho fatto per fare, ma era per non morire.
Si dice che bello tornare alla vita che mi era sembrata finita,
che bello tornare a vedere e quel che è peggio è che è tutto vero, perché…
la costruzione di un amore spezza le vene delle mani,
 mescola il sangue col sudore, se te ne rimane.
La costruzione di un amore non ripaga del dolore, è come un altare di sabbia
 in riva al mare.
Ma intanto guardo questo amore
 che si fa più vicino al cielo, come se dietro l’orizzonte ci fosse ancora cielo.
Son io, son qui 
e mi meraviglia 
tanto da mordermi le braccia, ma no, son proprio, io lo specchio ha la mia faccia.
Sono io che guardo questo amore che si fa grande fino al cielo,
come se dopo tanto amore bastasse e ci fosse ancora il cielo.
E tutto ciò mi meraviglia, tanto che se finisse adesso, lo so, io chiederei
 che mi crollasse addosso.
Sì.

La costruzione di un amore - Ivano Fossati - 1981


Cantare l’amore. Scrivere sull’adolescenza. “Costruire” l’uno e l’altra.

Proprio la relazione tra la canzone e l’argomento spiega il legame e dà un senso a questo libro.

Iniziamo dalla canzone. Penso che La costruzione di un amore di Ivano Fossati, scritta nel 1981, sia una delle più belle canzoni d’amore che siano mai state composte. Il testo e la musica sono dello stesso autore che ne ha fornito una delle più struggente interpretazioni, ma è stata poi interpretata da innumerevoli cantanti famosi e da altri più giovani e meno conosciuti negli ultimi anni. Un vero e proprio banco di prova.1

È difficile per me trovare delle parole che meglio di queste siano in grado di descrivere, allo stesso tempo e nello stesso brano, la complessità di emozioni, pensieri, sentimenti, percezioni somatiche, entusiasmo, speranze, gioia e fatiche che ci coinvolgono quando si incontra l’amore.

Tutti quanti abbiamo a che fare con l’amore.

Senza l’amore non si nasce, non si vive, non si sopravvive, non si cresce, non si diventa grandi e non ci si riproduce. E, forse, neppure si muore serenamente. Non sono un poeta o un filosofo, ma penso che la vita non possa essere vissuta e non abbia senso se non si ha la possibilità di fare l’esperienza dell’amore.

La dedica del libro riassume proprio l’essenza di questo sentimento.

Quando poi le cose nella nostra vita vanno bene, succede che anche il lavoro possa diventare una questione di amore e di passione. Se ciò accade, ci possiamo pure considerare fortunati.

Posso tranquillamente dire che per me lavorare con gli adolescenti è anche una questione d’amore.

Per parlare di adolescenza è necessario partire da quel doloroso processo che rappresenta la “costruzione” di questa fase così particolare della nostra vita. Costruzione necessaria per chi la attraversa, ma anche per chi se ne occupa, come terapeuta, genitore, insegnante, educatore, allenatore, sacerdote o quant’altro.

Mi piace in questo momento ricordare la ragione che mi ha portato a occuparmi di adolescenti. È probabile che una parte risieda nella mia storia personale, nel come sono stato adolescente e da come ho attraversato quella fase della vita. In realtà, come in ogni storia che si rispetti, sono gli incontri che determinano gli eventi della nostra esistenza. Voglio quindi parlare, dapprima, di un’adolescente, Maria Vittoria, conosciuta verso la fine degli anni settanta, mentre lavoravo in Guardia II, nel reparto psichiatrico del Policlinico di Milano. Aveva poco meno di diciotto anni e venne ricoverata per un episodio dissociativo (allora si diceva scompenso psicotico acuto); finì nella stanza assegnatami, la seguii durante il ricovero e iniziai con lei una psicoterapia psicoanalitica con la frequenza di tre sedute alla settimana. Ricordo ancora il coinvolgimento emotivo e affettivo che comportò lavorare con lei. Conservo ancora gelosamente il materiale clinico e i resoconti dettagliati delle sedute. Dopo un po’ di tempo Maria Vittoria decise di cambiare terapeuta e di rivolgersi a un analista più esperto di me. Condivisi e compresi la sua decisione, anche se mi dispiacque.

Sono però certo che quell’esperienza, l’intensità della stessa, mi abbia profondamente e positivamente segnato, nonché influenzato nelle mie scelte professionali successive.

Dall’altra parte devo ricordare un adulto, un maestro. Quello che per me è stato Tommaso Senise. Parlare di chi mi ha insegnato a lavorare con gli adolescenti è un’altra questione d’amore, nella forma della gratitudine. Pertanto avviso il lettore che il libro sarà permeato della sua figura, dei suoi insegnamenti e di tutto ciò che l’incontro con lui ha rappresentato per me, e tuttora rappresenta, sul piano professionale e umano. Negli incroci e nelle coincidenze a volte incredibili che la vita ci propone, è suggestivo ricordare che Tommaso Senise presentò il suo primo resoconto strutturato sul lavoro con gli adolescenti nel 1981, proprio l’anno nel quale Ivano Fossati ha pubblicato la sua canzone.

Ho pensato di scrivere questo libro anche perché mi sembrava un buon momento per riflettere sulle modificazioni del “Modello Senise” che sono avvenute nel corso degli anni e che io stesso ho apportato. Rappresenta un’occasione per ritrovare il senso e l'applicabilità di un modello che è ancora attuale, anche negli ambiti istituzionali, nei quali può rappresentare la modalità elettiva, dati i tempi brevi che caratterizzano il lavoro clinico nei servizi pubblici. Contemporaneamente è importante sottolineare come la profonda radicazione psicoanalitica del modello rappresenti anche un segnale rivoluzionario nei confronti di una modalità ormai diffusa in ambito sociale, quella della concretezza, della fretta e in parte dello scarso approfondimento delle problematiche. Lavorando con questo modello si ottengono due risultati importanti, apparentemente inconciliabili: fare alla svelta (cioè non far sentire un ragazzo “bloccato” dentro una relazione) e sviluppare pensieri (che favoriscono processi di mentalizzazione e, di conseguenza, facilitano attivazioni affettive ed emotive).

Torniamo all’amore, alla sua presenza nella nostra professione.

Lavorare con amore e con passione è per me non solo necessario, ma addirittura indispensabile, anche se non è da molto tempo che me ne sono reso pienamente conto ed è ancora meno tempo che mi sento in grado di dichiararlo e affermarlo pubblicamente.

Certo, questo tipo di amore presenta le sue fatiche e le sue difficoltà, specialmente durante la costruzione della relazione, ma anche, non ultimo, per il dolore con il quale si deve fare i conti quando la relazione, più o meno bruscamente, finisce. Chiunque condivida questo approccio alla nostra professione sa quanti sentimenti e emozioni si mettono in gioco nel momento in cui una terapia arriva alla fine. Parlare di lutto e di sentimenti di vuoto è assolutamente adeguato. So bene quanto tempo occorra per poter nuovamente occupare uno spazio nell’agenda precedentemente destinato a qualche paziente che, per sue ragioni, decide di interrompere un percorso terapeutico.2 D’altra parte, so altrettanto bene che solamente quando tra me e i miei pazienti, anche senza necessariamente esplicitarlo, si viene a creare una relazione con una valenza affettiva, solamente allora io sento di avere scelto quel paziente - e lui di aver scelto me - e di poter fare qualcosa di buono per lui, insieme a lui.

Basta allora “volersi bene”? 

Paolo Chiari (2009)3 ha ricordato le parole che Luciana Nissim pronunciò nel 1997, un anno prima della sua morte, nel corso di un’intervista ad Alberto Lampignano pubblicata sulla Rivista Italiana di Gruppo-Analisi, adesso ripubblicata in Il Cerchio magico: scritti sulla supervisione psicoanalitica (2008).

In questa stranissima vicenda - si riferisce all’analisi - in cui per tanti anni si sta insieme, ci sono dei momenti di piacere reciproco nel capire delle cose, ma non è questo a essere terapeutico. Credo che sia terapeutico il piacere di stare insieme.

Queste parole, che parlano di una dimensione libidica e affettiva della relazione terapeutica, proprio perché pronunciate da una collega autorevole e prestigiosa, ma che sapeva anche essere dura, quasi spietata, finanche sprezzante (ricordo molto bene le sue lezioni e supervisioni durante il training), ci permettono finalmente di coniugare il piano più strettamente scientifico con quello più “semplicemente” umano del nostro lavoro.

Forse perché preoccupati e timorosi di non essere riconosciuti nella specificità del lavoro e della formazione, troppo spesso alcuni colleghi si dimenticano di quanta importanza abbia la stretta dimensione relazionale dell’incontro con i pazienti. Tutti quanti, anche se non ce ne dimentichiamo e lo teniamo ben presente nella nostra mente, è difficile e più raro che ne parliamo delle nostre comunicazioni scientifiche e nei nostri scritti. Che, a volte, diventano eccessivamente complicati.

Per me è impossibile separare quanto ho imparato sul piano tecnico e teorico da quanto ho appreso sul piano relazionale, emotivo e affettivo. Quando incontro un nuovo paziente, quando mi cimento in una nuova avventura terapeutica, provo un’emozione molto forte, simile a quella che ricordo di avere sperimentato nei primi tempi della mia professione. Mi considero molto fortunato per avere la possibilità di continuare a provare queste sensazioni, ma credo che questo avvenga perché sono riuscito e ho continuato a coltivare dentro di me il piacere per la meraviglia e la sorpresa. Questa stato d’animo non è poi così diverso da quello che ci accade quando, senza rimpiangere con nostalgia l’intensità dei nostri primi amori, continuiamo a investire nell’amore per le persone, o la persona, che abbiamo accanto nella nostra vita.

Aprirsi al piacere e alla dimensione libidica del nostro lavoro non vuol dire ovviamente limitarsi al semplice benessere o al divertimento. Vuol dire manifestare un’apertura e una disponibilità anche verso i passaggi più difficili e dolorosi della relazione con il mondo interno e con le vicende dei nostri pazienti. Piacere è anche condividere le fatiche, i dolori, i lutti e le malattie. Mi viene in mente, a questo proposito, una paziente, con la quale ho lavorato, dopo che il contratto iniziale era avvenuto attraverso il confronto sulle problematiche dei due figli adolescenti, e che ho successivamente accompagnato attraverso la scoperta, la cura, l’assistenza e la conclusione della malattia mortale del proprio padre. In una sorta di passaggio attraverso tre generazioni, sono state sedute di grande intensità emotiva, nelle quali il livello dell’immedesimazione mi ha portato a sperimentare una reale commozione, quindi a contatto con una sofferenza che provavo direttamente sulla mia pelle, ma nelle quali ho sperimentato anche il senso di reale piacere nella condivisione, nell’accoglimento e nel riconoscimento della sofferenza altrui.

Lo ripeto. Basta allora “volersi bene”? 

La mia risposta evidentemente è scontata, ma è meglio ribadirla, a scanso di equivoci: no, non basta!4 Voglio ulteriormente sottolineare e ribadire che possiamo essere liberi e naturali solamente se abbiamo profondamente ed adeguatamente imparato  e introiettato le regole e le norme. Un po’ come un clown che riesce a commettere sbagli in maniera ridicola e maldestra, scatenando l’ilarità degli spettatori, solamente grazie all’essere di base un abile giocoliere ed equilibrista.

Nella relazione terapeutica possiamo aiutare i nostri pazienti solamente se siamo capaci di utilizzare tutti gli strumenti del nostro armamentario psicoanalitico, dall’analisi del transfert alle interpretazioni, e così via. È ovvio che i nostri pazienti non hanno bisogno di incontrare un “terapeuta buono”, ma di fare l’esperienza di lavoro con un “buon terapeuta”. Capace, a seconda delle necessità e dei momenti, come una buona madre di accogliere e comprendere, come un buon padre, di essere duro, severo, doloroso, finanche spietato.5

Così, l’alleanza di lavoro diventa contemporaneamente condizione e strumento terapeutico.

Per tale motivo, per cercare di realizzare questo auspicio, nelle mie intenzioni questo sarà un libro sulla tecnica. E come tale, prima ancora di essere scritto, al solo pensarlo o progettarlo, mi ha procurato molte emozioni, mi ha profondamente coinvolto e animato.

Ho bene in mente, infatti, quali fossero le mie esigenze e le mie necessità agli inizi della professione. Sono stato un buon lettore, non certo sistematico e metodico. Leggere gli autori classici mi piaceva, perché mi dava la sensazione di appartenere a una storia e di discendere da antenati e predecessori, mi rassicurava. Tuttavia la teoria come pura esercitazione speculativa non mi è mai piaciuta e ho sempre avuto il bisogno di integrarla con la dimensione clinica. L’incontro tra gli stimoli della teoria e la pratica della clinica si realizzava in me attraverso l’attenzione e la ricerca riguardante le scelte e gli orientamenti tecnici. Penso che questa visuale mi abbia permesso, prima ancora di chiedermi quale fosse la diagnosi di un tal paziente, o quale fosse la giusta teoria in grado di spiegare ciò che gli stava accadendo, di cercare di comprendere ciò che davvero stava succedendo a quella persona e quali fossero quindi le risposte più adatte ai suoi bisogni. In questo senso la tecnica diventava per me lo strumento di base attraverso il quale operare delle scelte, costruire un setting in grado di permettermi l’incontro e il lavoro terapeutico con il mio interlocutore. Ricordo ancora con immenso piacere la lettura dei pochi libri di tecnica esistenti negli anni ottanta. Penso che mi siano stati di grande aiuto soprattutto perché non li ho mai sentiti e utilizzati come dei rigidi manuali da applicare pedissequamente e acriticamente.6

C’è, comunque, un’altra ragione che mi ha portato a pensare di scrivere questo libro.

A essere sincero e un po’ spietato, devo ammettere che c’è anche una questione vagamente narcisistica, forse l’amore per eccellenza, l’amor proprio, quello per se stessi, giusto per rimanere in tema. Scrivo perché penso di avere qualcosa da dire, qualcosa che possa interessare, qualcosa che possa servire, che possa piacere. Lo dico con un po’ di imbarazzo, timidezza e pudore. Ho sempre citato come modello esemplare Tommaso Senise che ha scritto il suo primo articolo dopo i sessant’anni e il primo libro dopo i settanta. L’essere ora “around sixty”, con qualche decennio di professione alle spalle, mi fa pensare che sia il momento giusto. Spero davvero che sia così.

Per entrare in una dimensione più oggettuale, infatti, un’altra parte della mia attività professionale, che mi ha sempre profondamente coinvolto e interessato, è stata l’insegnamento. Anche in questo caso ho avuto la fortuna di incontrare persone e colleghi che mi hanno subito dato la possibilità di mettermi in gioco nel campo della formazione, a partire dalle lezioni agli infermieri psichiatrici a Ville Turro a Milano, ancor prima di laurearmi, o alle esercitazioni agli studenti di medicina, fresco laureato, o ai supporti didattici che fornivo a Zapparoli e a Senise durante le loro lezioni al Centro di Psicologia Clinica della Provincia di Milano. Di certo non mi è mancata allora neppure la sfrontatezza (un po’ adolescenziale, credo…), condizione assolutamente necessaria per affrontare allievi di qualsiasi tipo essi fossero e in qualunque condizione si ponessero nei confronti dell’apprendimento. Una cosa certa è che l’insegnamento mi è sempre piaciuto tantissimo e di nuovo quindi mi ha messo a contatto con la dimensione libidica del piacere, sempre coniugato, come ci ricorda Fossati, con l’impegno e la fatica.

In questi anni ho continuato a incontrare allievi in vari contesti formativi e mi sono sentito porre varie domande e richieste. Penso che la più frequente, specialmente in ambito di supervisioni o resoconti di esperienze cliniche sia sempre stata quella che conteneva, più o meno esplicitamente, una richiesta di questo tipo: “Non so se ho fatto bene!”, oppure “Cosa devo fare?” o ancora “Va bene se faccio così?”. Sinceramente non so se sono stato in grado di rispondere sempre adeguatamente alla domanda. Non so neppure ora se veramente possiedo questa capacità. So di avere alle spalle più di trentacinque anni di lavoro clinico, qualche centinaio di pazienti incontrati, un’esperienza che mi piacerebbe condividere e mettere a disposizione degli altri. Tutti quello che ho scritto sono i pensieri che si sono fatti strada nella mia mente da quando ho iniziato a svolgere la professione di psicoanalista.

In questo senso le “adolescenze” del libro non sono solamente quelle dei ragazzi e delle ragazze che incontriamo nei nostri studi, ma anche le nostre, all’interno di un processo di soggettivizzazione che necessariamente si svolge anche dentro di noi.

Generalmente, in maniera naturale, i bambini crescono e diventano adolescenti. I terapeuti, spesso nati già adulti (tra regole, principi, teorie e tecniche), per incontrare i loro pazienti più giovani devono tornare adolescenti, recuperare soprattutto la libertà che questa irripetibile, affascinante, terribile e stupenda fase della vita ci fa sperimentare.

Con questo spirito parlerò di tecnica e di clinica. Non di regole rigide, ma di princìpi e cambiamenti. Continuando a mantenere viva dentro di me quella sfrontatezza (sicuramente adolescenziale) che mi ha permesso, non senza ansie e fatiche, incertezze e timori (alcuni tuttora e credo per sempre presenti), di arrivare a essere la persona e lo psicoanalista che sono oggi.

 1.Fino ad oggi ho trovato almeno undici differenti versioni e interpretazioni della canzone.
2 Per non parlare di cosa comporti la morte di un paziente adolescente, tema per me ancora troppo personale e intimo.
3 Attuale Segretario Scientifico del Centro Milanese di Psicoanalisi Cesare Musatti.
4 Anche se lo considero, per lo meno, un buon inizio, o una buona conclusione. Ecco, come esempio, un messaggio ricevuto da una paziente che aveva recentemente concluso una psicoterapia: “Buon 2014, dottor Goisis. Grazie per avermi accompagnato all’altare con dolce professionalità. Un caro saluto.” Aveva rapidamente perso il padre più di un anno fa, sei mesi prima del suo matrimonio che era già stato programmato.
5 Riporto, come altro esempio, le poche, ma efficaci parole ricevute in una mail da una giovane donna, successive a un primo colloquio nel quale le avevo evidenziato i suoi meccanismi di funzionamento e dato l’indicazione per un percorso terapeutico, che peraltro non avrebbe fatto con me. “Buonasera dottore. Mi ha scombussolato un bel po'. Ci ho pensato e credo di volermi fare questo regalo.”
6 Penso che le cose che ho appena scritto siano già di per sé sufficienti a fugare dei dubbi circa il possibile equivoco che la parola “tecnica” può suscitare. Ciò non di meno, preferisco sottolineare che quando parlo di tecnica, della “mia tecnica”, non intendo riferirmi a dei dettami da seguire pedissequamente e in maniera uniforme con tutti i pazienti. Quanto piuttosto sollecitare delle riflessioni sulle scelte da compiere in particolari frangenti che la clinica ci pone. 

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