L’adolescenza è un territorio insidioso dal quale si esce spesso portando con sé ferite che dureranno per sempre. Allo stesso tempo, è anche la stagione delle grandi possibilità. Un periodo in cui circolano energie e potenzialità che se ben indirizzate possono dischiudere il futuro.
In questo gli adulti giocano un ruolo decisivo, in particolare quelli che hanno una responsabilità educativa nei confronti dei ragazzi. Gli adolescenti hanno bisogno di adulti forti, capaci di comprendere, di indirizzare, di opporsi e, soprattutto, di riconoscere ed esercitare in modo consapevole il proprio potere. Lo dice Lamberto Bertolé nel suo libro “Il miele e l’Aceto” (Novecento editore), un testo che si distingue per l’impronta narrativa e il tono dialogico, volutamente non specialistico e per questo in grado di produrre una continua sollecitazione nel lettore.
Bertolè mette in campo la sua esperienza di educatore e insegnante per raccontare quello che ha vissuto e per proporre quel deposito di “saggezza” che il fluire dell’esperienza ha sedimentato in lui, sapendo però che tutto, in questo campo, è sempre ancora aperto: che ogni adolescente è un mondo a sé e che nel lavoro educativo non ci sono mai punti d’arrivo riproponibili come una costante. Non esistono infatti “istruzioni per l’uso” da seguire sempre e comunque nel rapporto con i ragazzi. Bertolé individua, piuttosto, il fattore più importante alla base del suo lavoro nella fiducia. Fiducia che il cambiamento, per gli adolescenti, sia ancora possibile: ogni ragazzo ha un valore da esprimere, un’ambizione, una strada da seguire, e averne la possibilità è un suo diritto inalienabile. Nella realtà che viviamo, però, ci dice l’autore, gli adolescenti spesso vengono lasciati soli, a errare e a insistere in direzioni che non offrono loro sbocchi.
Il libro si sviluppa evitando le categorie cui siamo abituati quando si parla di adolescenti: non ci sono capitoli sulla scuola, sulla famiglia, sui genitori, sulla trasgressione, e così via. Le riflessioni e i racconti ruotano attorno a parole chiave che percorrono trasversalmente le questioni cruciali che riguardano l’adolescenza. Sorprende il loro essere controcorrente. Bertolé inizia infatti argomentando di quanto sia importante, con gli adolescenti, saper aprire e sostenere conflitti, senza sfuggirvi e senza prevaricare: senza schiacciare ma anche senza eludere l’impegno di essere adulti credibili e autorevoli, che assolvono alla propria responsabilità educativa.
Quello di Bertolé è un testo che parla molto anche degli adulti, delle loro difficoltà, delle loro fatiche (memorabili gli affondi sulla scarsa autostima degli insegnanti e sul discredito sociale del loro ruolo) ma anche dell’enorme importanza che possono avere per il destino dei giovani affidati alle loro cure di educatori o genitori. A questo è dedicato un intero capitolo, significativamente intitolato “Maestri”. Gli altri capitoli parlano di identità, di potere, di gruppo, di limite e di risarcimento. È un libro che solleva questioni a ogni pagina e che potrebbe tornare particolarmente utile, più che a coloro che saprebbero affrontarle e discuterle a partire dal loro specifico professionale, a quanti (e penso in particolare ai genitori) si trovano a fare i conti in modo totalmente improvvisato con le sfide a volte drammatiche lanciate dagli adolescenti. Adulti che spesso nemmeno immaginano i danni che possono derivare dalle loro modalità di risposta.
Il testo è attraversato da citazioni e rimandi agli autori che hanno segnato la formazione di Bertolé. Si inizia con un brano di Leopardi, dallo Zibaldone, che mette a fuoco una questione centrale: sono le circostanze e le impressioni, anche minime, apparentemente trascurabili, della fanciullezza a determinare il carattere e le inclinazioni dell’uomo adulto. Molto bello il passaggio su Stevenson, al quale è lasciato il compito di rappresentare l’ambivalenza dell’adolescenza e il suo slancio verso l’inesplorato:
“Proviamo a metterci nei panni di un ragazzo di seconda media, un dodicenne, facendo l’esperimento mentale di uscire di casa al mattino, in bicicletta o in autobus. Stiamo iniziando ad andare da soli a scuola. Ci siamo messi il gel, jeans particolari, le scarpe giuste, ci sentiamo grandi. Un genitore magari ci sta osservando da dietro l’angolo. Ognuno di noi ha un suo immaginario potenziale su questo momento di passaggio della vita. Proviamo a pensare a cosa animi questo ragazzo o questa ragazza che esce di casa e entra nella sfida dell’esperienza quotidiana del mondo. Da quali bisogni è mosso, cosa sta cercando, quali desideri, quali domande attraversano la sua gioia e le sue sofferenze? Cosa sta facendo, in quel momento? Cosa vorrebbe?
[…] Un’età decisiva nella vita e nella letteratura. Si tratta di quel preciso passaggio dell’adolescenza, quella soglia in cui Stevenson posiziona Jim Hawkins, l’adolescente protagonista dell’Isola del tesoro, facendone il modello di tanta letteratura di formazione. Il momento in cui i valori e le cose del mondo si complicano, prendono sfaccettature nuove, si mostrano per la prima volta nella loro ambivalenza, insinuando nei giovani delle interrogazioni. Il male e il bene, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, con una delimitazione non più così definita. Non più pre-definita ma offerta all’esperienza e alla scelta individuale. L’ambivalenza del pirata Long John Silver agli occhi e nel racconto di Jim, il male che non si dà mai solo come completamente negativo. La complessità della natura umana, con i suoi elementi di rischio e di fascino”.