Per gentile concessione dell'autrice, Zoe Rondini, pubblichiamo un brano di Nata Viva (Società Ed. Dante Alighieri)
Quando ero piccola tutti mi dicevano che ero uguale agli altri bambini, poi crescendo mi è venuto qualche dubbio.
Adesso mi domando quand’è che ho cominciato a capire che avevo qualcosa che mi “distingueva” dagli altri, qualcosa che non gli permetteva di accettarmi, li metteva a disagio. Non a tutti si intende, ma già dal modo in cui la gente si avvicinava a me, riuscivo subito a distinguere se una persona era sensibile, senza pregiudizi e senza imbarazzi, oppure no.
Forse ho percepito questo fin dall’asilo, visto che i miei primi ricordi risalgono a quegli anni, forse da molto, molto tempo prima, quando osservavo gli altri bambini sgambettare dall’interno dell’incubatrice. O forse l’avevo già intuito quando mi trovavo nella pancia di mia madre e avevo tutta quella fretta di uscire e tutta quella paura, non potevo non aver paura, “qui sono al sicuro”, devo aver pensato. Non volevo ritrovarmi in un mondo troppo grande per me, troppo rumoroso, pieno di doveri e regole da rispettare. Dove tutti corrono e poche persone hanno tempo e voglia di aiutare chi resta indietro. “La nascita è un cambiamento troppo grande per me”, devo essermi detta, e io ho sempre temuto i cambiamenti.
Non so dire quando ho intuito che avevo qualcosa di “diverso”, ma so che la consapevolezza della mia diversità l’ho acquisita piano piano, crescendo, sentendo gli altri bambini che di nascosto ridevano e parlavano di me e dicevano “guarda i suoi scarabocchi”. O quando rimanevo seduta ad osservare tutti gli altri muoversi, bambini che correvano, dispettosi e allegri, saltavano, salivano e scendevano dagli alberi, dalle altalene, dai muretti alti, ogni giorno sempre più alti. E poi c’erano i grandi che sempre dovevano andare da qualche parte, sempre avevano qualcuno da chiamare, da andare a cercare, qualcun altro con cui stare. Non capivo perché avessero bisogno di muoversi tanto. Forse sto meglio io, non mi stanco come loro, posso giocare qui per terra, potrei giocare qui in ginocchio per interi pomeriggi. Mi dicevo questo e non pensavo a quello che mi mancava.
per anni ho cercato di capire cosa fosse,
ero io che mi escludevo dagli altri o erano loro che mi escludevano?
Quando avevo pochi mesi giocavo per terra con i miei coetanei: è normale, tutti i bambini giocano per terra, tutti i bambini iniziano giocando per terra. Poi un giorno, gli altri hanno prima cominciato a gattonare e dopo, piano piano, ad alzarsi in piedi, come i grandi. Decisi di provare anch’io, sembrava facile, ginocchia sul pavimento, mani giù per terra, sguardo in avanti, facile come è facile per tutti, ma io non ci riuscivo. Mi chiedevo come mai, visto che mi sentivo uguale a loro. Forse non ero abbastanza grande o forse non abbastanza uguale. Venivo invitata alle feste. Mamma mi comprava dei vestiti “eleganti” che sceglieva lei, mi preparava e mi ci portava: i medici le avevano spiegato che mi faceva bene stare in mezzo alla gente perché avevo bisogno di “essere stimolata”, dicevano. Io speravo solo di divertirmi, ma non sempre succedeva, non succedeva quasi mai in effetti. Anche dopo, da grande, andavo alle feste o in discoteca, perché lo facevano tutti ma non mi divertivo. L’euforia dell’attesa svaniva subito lasciandomi annoiata e delusa. Credevo che andare alle feste fosse un modo per essere uguale agli altri, sentirmi uguale a loro, o diventare come loro. In realtà più mi sforzavo, più mi rendevo conto di essere diversa, e non era solo una diversità fisica, c’era dell’altro. Per anni ho cercato di capire cosa fosse, ero io che mi escludevo dagli altri o erano loro che mi escludevano? Ero io che non li capivo o erano loro che non capivano me? Più mi sforzavo di avvicinarmi e più mi sentivo lontana, più cercavo una risposta, più una risposta non c’era. La colpa, però, mi sembrava soltanto mia.
Da piccola, dunque, giocavo per terra con tutti, poi però i giochi si sono fatti sempre più complessi, bisognava muoversi sempre meglio, correre, saltare, strisciare per terra. Facevano dei giochi di squadra, delle staffette, mentre io rimanevo seduta in braccio a mamma. So che per lei non è stato facile tutto questo, forse è stato più difficile per lei che per me. Non lo so, io non me lo ricordo, ma lei sì. È stata lei a dirmi che lo faceva per me, per aiutarmi, ma le pesava stare insieme alle altre mamme a guardare i loro bambini. Dagli anni dell’asilo in poi, ho soprattutto ricordi legati a medici e fisioterapisti, ma non ne parlo più e non intendo parlarne neanche ora: mi c’è voluto tanto tempo e tanta fatica per accantonarli e adesso che ci sono riuscita non voglio assolutamente tirarli fuori. A ricordarli oggi, gli anni dell’asilo sono stati quelli in cui ho semplicemente e disperatamente desiderato gattonare. Mamma, nonna, i medici che mi seguivano, non si accontentava nessuno: volevano tutti vedermi camminare. Io volevo solo spostarmi in qualche maniera, ma capivo che per loro non era sufficiente: dovevo camminare. Era un’ossessione, più mi impegnavo per riuscirci più diventava faticoso. “Non voglio camminare, voglio solo muovermi carponi”, mi dicevo. Più gli adulti insistevano per farmi camminare più io desideravo gattonare e non capivo perché mi chiedevano di fare una fatica che mi sembrava enorme, al di sopra delle mie forze. In verità osservavo con invidia gli altri bambini che si rincorrevano nel cortile della scuola, mi sembrava assurdo ed ingiusto che io non potessi fare quei giochi. Mentre correvano sembravano così soddisfatti, era la cosa più naturale del mondo, correre.
penso che negare le differenze non sia un’arma per combatterle
Adesso sono grande, ho studiato, ho letto dei libri. Ho studiato che il gioco è l’attività più importante che un bambino possa fare, è uno “strumento” che gli permette di sviluppare la propria curiosità, conoscere, interagire col mondo che lo circonda e con gli altri. I bambini per crescere ed arricchirsi devono giocare: questo mi hanno insegnato i libri. Nessuno ci insegna a giocare: è l’attività che tutti fanno spontaneamente, dicono i libri, in qualsiasi paese del mondo i bambini giocano, dicono i libri, in modi diversi secondo gli usi e costumi dei popoli, dicono i libri. Se il bambino vede un adulto che va a caccia o raccoglie dei frutti, lui gioca ad imitarlo, dicono i libri: così facendo imparerà delle attività che gli serviranno da grande. Tutto questo lo dicono i libri e “questo meccanismo non varia col passare dei secoli”. Questo meccanismo è “uguale per tutti”. Non posso dire di non aver giocato, ma è stato diverso, ho solo avuto meno tempo e meno possibilità. Pensare che quando si cresce si debbano studiare sui libri dei comportamenti spontanei mi fa uno strano effetto. Adesso studio il gioco in tutte le sue forme e funzioni, e da piccola non ho potuto giocare perché dovevo “crescere e migliorarmi”. A proposito di miglioramenti ricordo una suora che mi diceva sempre: «Volere è potere». Dentro di me pensavo “Ti sbagli. Io vorrei tanto camminare bene, ma non ci riesco e non so perché”. Non sopportavo la sua affermazione, era sbagliata. Ma non avevo il coraggio di dirglielo in faccia, così mi limitavo a pensarlo. La cosa peggiore era che non riuscivo a farmene una ragione: nessuno mi aveva spiegato il motivo dei miei problemi. Mamma e nonna parlavano tra loro per ore interminabili, usando termini a me sconosciuti. E poi si andava dal dottore, dallo “specialista”, da chi avrebbe dovuto risolverli, quei problemi. Io, in genere, mi annoiavo e non capivo. Capivo che parlavano di me, questo sì, ma anche il medico parlava quella loro lingua fatta di termini sconosciuti. Capivo anche che a quel dottore chiedevano di aiutarmi a camminare proprio come l’avevano chiesto a un’infinità di medici prima di lui e come avrebbero fatto con altrettanti dopo.
«Facciamola camminare», dicevano.
Per quanto riguarda me, quando finalmente sono riuscita a gattonare, mi sono sentita già soddisfatta. Potevo difendermi da tutti quegli adulti che mi chiedevano troppo, così appena non mi vedevano mi mettevo per terra e mi spostavo carponi. Mi piaceva stare a terra. Trascorrevo tantissime ore a giocare in ginocchio appena rimanevo da sola, senza qualche fisioterapista che mi perseguitava con i suoi esercizi. Se poi mi dovevo spostare per casa lo facevo gattonando: avevo imparato bene e ne ero fiera. Ancora oggi ho le ginocchia segnate da quei lunghi tragitti. Penso che negare le differenze non sia un’arma per combatterle: mi facevano terribilmente arrabbiare tutte quelle persone che si ostinavano a ripetermi che non esisteva nessuna differenza tra me e i mie coetanei. Avrei voluto dirgli “Ma non capite... allora spiegatemelo voi perché non posso fare tante cose che le altre persone fanno normalmente. Come fate a dire che le mie differenze non esistono...)”. Non ho una lesione midollare per la quale sto sulla sedia a rotelle ma dalla vita in su sono completamente “normale”.
Il mio problema motorio colpisce parzialmente tutti i miei movimenti, tutti i muscoli, volontari ed involontari, cammino un po’ male, parlo un po’ male, controllo un po’ male i movimenti delle mani, delle dita, dei bulbi oculari... non ho un movimento, un arto o un muscolo che non fa capo al mio sistema nervoso centrale che è stato lesionato a causa di cinque minuti... sì quei cinque minuti al momento della nascita. Ma per fortuna l’intelligenza e l’affettività sono rimaste perfettamente intatte! Oggi capisco che tutte quelle persone che mi ripetevano che ero una bambina assolutamente “normale”, lo facevano a fin di bene. Allora però, mi sembrava che nessuno riuscisse a comprendere gli sforzi che facevo per fare cose “normali”, della vita di tutti i giorni. Avrei voluto che qualcuno riconoscesse il mio impegno e le mie difficoltà, invece mi sembrava che ogni giorno dovevo impegnarmi al massimo per ottenere qualche cosa, e nessuno se ne rendeva conto. Più la gente mi diceva che ero normale più mi sentivo esclusa dalla “loro” classificazione di normalità. Ho sempre ritenuto la “normalità” un concetto astratto. Che cosa è normale? Niente. Chi è normale? Nessuno. Negavo la normalità forse, per legittima difesa.
Un mio compagno di scuola era balbuziente, Luca. A ricreazione giocavamo a nascondino e Luca riusciva sempre a fare “tana libera tutti” che in questo gioco significa che l’ultimo che arriva alla tana può liberare quelli che sono stati catturati. Lui era molto più bravo di me. Per questo era il primo ad essere invitato a giocare, mentre per me c’era la maestra di sostegno che diceva agli altri bambini: “Aspettate, gioca anche Zoe” e mi aiutava a correre. Giocavo con tutti gli altri, ma capivo che il mio modo impacciato di correre faceva ridere. Volevo giocare e divertimi ma c’era sempre chi arrivava alla “tana” prima di me. Avevamo tutti e due dei problemi, ma per lui era più facile farsi accettare perché correva veloce. Luca è stato solo il primo di una lunga lista di persone più brave di me. Io sapevo che i miei compagni di classe non erano così bravi come sembravano, perché erano facilitati: loro non facevano molta fatica nel fare le cose, io lo sapevo, ma il fatto di saperlo non mi ha mai consolata più di tanto. Se giocare a nascondino non è mai stato il mio forte, Luca non riusciva molto bene nella lettura ad alta voce: quando leggeva s’inceppava su una parola o su una frase intera e i nostri compagni scoppiavano a ridere. Mi dispiaceva che lo prendessero in giro proprio quando si trovava in difficoltà, ma in un certo senso eravamo pari. Comunque mi sembrava che nonostante ciò, lui avesse meno problemi nel farsi accettare, dai coetanei ma anche dagli adulti.
sapevo che era così e avrei voluto tanto essere anche io lì con loro tutto il giorno
Forse la gente non considera la balbuzie un vero problema un handicap fastidioso però poi quando diventa più frequente, tutti tendono ad allontanarsi, quasi fosse una forma di autodifesa. Per me era un problema anche scrivere, così fin dall’asilo mi hanno dato dei compiti specifici. Dovevo riempire intere pagine di quaderno con dei segmenti, poi con delle lettere. Trascorrevo gran parte della mattinata a tentare di scrivere, il pomeriggio invece veniva un fisioterapista a casa e mi faceva fare altri esercizi preparatori per la scrittura. Posso dire di avere cominciato a studiare prima ancora di andare a scuola e lo dovevo fare tutti i giorni, anche in vacanza, perché la fisioterapista era sempre con me. La mattina ci mettevamo sulla veranda io e lei. Mamma non ci disturbava, sapeva che dovevo esercitarmi, lo sapevo anch’io. Non mi dovevo distrarre, non mi potevo distrarre, dovevamo essere sole io e la fisioterapista. Ricordo che un giorno ho iniziato a giocare con un fazzoletto, lei me lo ha tolto dalle mani e ha esclamato: “Anche con questo ti distrai”. Un’altra volta avevo appena aperto il libro quando ho sentito al di là della siepe mia cugina che gridava: “Mamma sono pronta, andiamo al mare”. Non era giusto - pensavo - anch’io volevo andare in spiaggia con mia madre e invece non potevo muovermi, dovevo rimanere lì seduta a esercitarmi nella scrittura. Gli adulti riuscivano a farmi fare sempre quello che dicevano loro, ma nessuno poteva impedirmi di viaggiare con la fantasia. Immaginavo mia cugina che si divertiva in spiaggia con i nostri amici a costruire con la sabbia una pista per le biglie, per poi fare una partita tutti insieme. E subito dopo il bagno in acqua a schizzarsi felici. Sapevo che era così e avrei voluto tanto essere anche io lì con loro tutto il giorno. Avrei giocato con i miei amici, avrei fatto quello che facevano tutti gli altri bambini. Io volevo solo andare al mare e non avere orari proprio come non li aveva mia cugina. Non mi sembrava giusto che la mia giornata fosse scandita dai doveri anche in vacanza. Ogni inverno aspettavo l’estate per essere finalmente libera, ma quando poi arrivava, c’erano sempre anche la fisioterapista, gli esercizi e tutto il resto.
Oggi capisco che dovevo tenermi in allenamento tutto l’anno, ma all’asilo tutto questo mi sembrava una condanna. Dovevo imparare a scrivere perché qualche dottore aveva detto che avrei avuto difficoltà nel farlo, mentre per leggere avrei rispettato i tempi di tutti i bambini. Mi piacerebbe incontrarlo adesso quel medico per dirgli che poteva anche risparmiarmi tutti quegli esercizi perché ormai uso il computer. La mia grafia non è mai stata molto chiara nonostante gli esercizi, e ho molte difficoltà nella lettura. Anche se all’asilo facevo fatica a scrivere, dalle elementari in poi mi è sempre piaciuto: attraverso la scrittura riuscivo ad esprimermi. Da piccola gli unici compiti che riuscivo a fare bene, e che facevo quasi con piacere, erano i temi. In quel periodo però, non avrei mai immaginato che per me la scrittura sarebbe diventata una passione, unico appiglio a cui aggrapparmi, una sorta di ancora di salvataggio, nei momenti più difficili della vita. Ho deciso di cominciare a scrivere su un quaderno i momenti più importanti della mia vita, quelli che non volevo assolutamente dimenticare. Era l’autunno del 1994, avevo tredici anni. L’idea mi è venuta dopo la morte di Rickie: quando mamma ha spiegato che se n’era andato in cielo e che non l’avremmo più rivisto, io ho sentito il bisogno di non dimenticare nulla, e ho cominciato a scrivere per trattenere tutti i minimi dettagli. Rickie non c’era più, questo è il fatto. Ma tutti i ricordi che ho conservato dentro di me, li scrivo sulla carta, in modo che non sbiadiscano con il tempo che passa. In questi ultimi tre anni sono cresciuta ed è cresciuta anche la consapevolezza che è tramite il dolore che diventiamo grandi. Quando Rickie era vivo mi raccontava che in America esistono i teenager; prima sei considerato un bambino poi entri nell’adolescenza, diventi teenager, con tutto ciò che comporta: le uscite il sabato, gli amici, i primi flirt. Io sono arrivata a tredici anni e ho capito che non era vero niente. Sì, ho fatto delle cose da teenager, ma si contano sulle dita di una mano. Per me, ad esempio, il sabato era (lo è tutt’oggi) un giorno come gli altri, mentre per i miei coetanei è il pomeriggio in cui si esce e ci si diverte. È il momento più atteso della settimana, per il quale ci si organizza dal lunedì precedente con una serie infinita di telefonate. Vi posso assicurare che è veramente triste rimanere a casa da sola e sapere che tutti escono in gruppo, vanno a ballare e a divertirsi. Quando i miei amici cominciavano ad uscire io tentavo di unirmi al gruppo: facevo telefonate, cercavo di organizzare io le uscite, tentavo di lanciare idee che a me sembravano divertenti... ma i risultati erano a dir poco catastrofici. Non riuscivo a rassegnarmi all’idea: non vedevo nessun motivo valido per questo isolamento forzato. Ero arrivata al punto di odiare queste quattro mura di casa mia. Volevo uscire da questa prigione. Avevo la stessa voglia di divertimi dei miei coetanei, e proprio non riuscivo a capire perché non avessi lo stesso diritto di godermi la mia età. Come la vogliamo chiamare questa “adolescenza”? Ti fai dei bei castelli in aria e poi ti crollano addosso. Teenager.
scrivere mi aiutava a non sentirmi inutile
In quegli anni trascorrevo interminabili pomeriggi in casa e scrivevo: era l’unica cosa che potevo fare senza l’aiuto di nessuno. Non potevo uscire da sola, tutti i pomeriggi veniva la fisioterapista oppure qualche ragazza che mi faceva studiare. Non ero autonoma ed avevo molto tempo libero, tempo in cui mi annoiavo, mi sentivo in colpa perché non facevo nulla di utile e di conseguenza mi deprimevo. Pensavo alla mia vita, a Rickie che non c’era più, alla mia solitudine, alle mie profonde diversità, e anche al tempo vuoto, dilatato, dove esistevano solo noia e tristezza. Per non rimanere immobile distesa sul letto con questi pensieri, mi mettevo davanti al computer a scrivere. Sapevo che i miei amici trascorrevano i pomeriggi in modo diverso, ma se scrivevo facevo finta di non pensarci. Mi riempivo la testa di tutto questo e il tempo a scrivere i momenti belli legati a Rickie. Scrivere mi aiutava a non sentirmi inutile. Mi faceva compagnia. Ho sempre avuto paura della solitudine, ma ancora di più della noia. È la noia che porta la depressione, l’assenza di attività, la monotonia, la ripetizione del nulla. Per me era una vergogna, il mio peccato più grave: gli adulti mi hanno sempre richiesto tanto impegno e costanza, per questo quando stavo senza far niente, era come se non non mi sforzassi di migliorare. E questo non mi era permesso, né dagli adulti, né da me stessa. Però potevo scrivere e, grazie al computer, ho imparato a farlo da sola. Fin da quando avevo 13 anni, il mio obiettivo è sempre stato quello di raccontare la mia vita. Fin dall’inizio avevo ben chiaro che questi miei racconti sarebbero potuti rimanere solo un mio esercizio, un piacevole passatempo, oppure sarebbero stati letti - e condivisi - da un numero più o meno significativo di temerari lettori. Dai tredici anni in poi, questo è stato sempre il mio sogno. L’unico punto di vista adottabile in un’autobiografia, a rigor di logica, è il proprio e di certo non rappresenterò l’eccezione che conferma le regola. Mi rendo assolutamente conto della parzialità delle mie idee e capisco anche che se queste stesse vicende fossero raccontate e scritte da mia sorella, da mia madre o da chiunque altro sia entrato in contatto con me nel corso degli anni, nascerebbero racconti molto diversi fra di loro, magari totalmente estranei o addirittura opposti all’opera che sto tentando di concepire e mettere insieme io e solo io.
Nei tanti momenti in cui comparirà mia madre (preparatevi!), ci saranno tutte le mie frustrazioni, la mia rabbia, le mie emozioni e le sue. Le descriverò io, quindi non potranno mai essere obiettive, ma saranno sempre un parto dei miei ricordi. Ci sarà sempre il mio punto di vista a cui non vorrei mai rinunciare.
La vita non ha regalato nulla di così semplice o così piacevole a mia madre, anzi. È stata un susseguirsi di dolori, tanti, che lasciano il segno. Un po’ come lo è stato per me anche se le circostanze e le condizioni di partenza erano ben diverse, Nella mia narrazione non le concederò molte giustificazioni su ciò che ha reso difficile e conflittuale il nostro rapporto per tanto tempo, soprattutto, negli anni dell’adolescenza, l’età dell’insofferenza e della ribellione, vissuta fino in fondo con tutti i suoi stereotipi e le sue pulsioni. Anche qui non ho fatto eccezione (ma l’adolescenza di un disabile non dovrebbe annoiare il lettore). Non ho ancora capito cosa sto scrivendo, forse la mia autobiografia, o forse solo qualche appunto che rimarrà in un file del mio computer, ma penso che per capire uno debba guardarsi bene dentro, pensando al futuro senza dimenticare mai il proprio passato. Per questo, forse, è meglio cominciare a raccontare tutto dall’inizio, anche se non seguirò un ordine cronologico. Cercherò di mettere in fila tutti quei ricordi che si accalcano nella mia testa, come la gente al cinema che si spinge senza rispettare la fila per entrare prima degli altri a godersi un film di cui tutti hanno parlato. E in questo caso c’è la vita di una persona che ha deciso di raccontarsi il proprio film, fotogramma per fotogramma per mettere ordine, senza permettere al logorio del tempo di comprometterne le immagini originali. Ora avete la possibilità di verificare concretamente il senso della mia avventura... così è se vi pare.
Il libro si può acquistare qui.
Per contattare l’autrice potete scrivere a
Zoe Rondini è il nome d’arte dell’autrice. Laureata in Scienze dell’Educazione e della Formazione e specializzata in Editoria e Scrittura alla Sapienza di Roma. Si è sempre impegnata a scrivere articoli riguardanti i problemi e i diritti delle persone disabili su vari siti, quotidiani on-line quali Rete Near dell’Unar, ufficio nazionale anti-discriminazione razziali e sulla rivista italiana dell’Opera Montessori. “Nata Viva” è la sua opera prima.
Lucia Pappalardo ha trasformato "Nata Viva" in un breve film grazie al supporto dell'Associazione Nazionale Filmaker Videomaker Italiani: https://youtu.be/hZTuC171cX4