Per gentile concessione dell'autore pubblichiamo un estratto da "Mio fratello è figlio unico (ma ha molti follower)" di Felice Di Lernia (Bordeaux edizioni).
Quanto male può fare una domanda?
Decine di bambini escono dal retro della parrocchia nella quale hanno appena partecipato a un incontro di catechismo. Un padre accoglie la sua bambina chiedendole “Qualcuno dei bambini ti ha dato fastidio?”. Glielo chiede direttamente, senza premettere nulla, neppure un saluto. È la prima cosa che le dice. La bambina gli risponde allontanandosi con lui, e saltellando, e io non riesco a sentire la sua risposta.
È incredibile il potere che può avere una domanda: può anche uccidere! Certo non uccide immediatamente, sul colpo intendo, ma può farlo a lungo termine. Per esempio può uccidere la capacità di stare nel mondo insieme alle altre e agli altri e di starci con gioia. Soprattutto di starci apertamente e con curiosità.
Non tutte le domande sono uguali: quelle di un genitore hanno un peso pesante, va da sé, ma anche quelle di un insegnante lo hanno e se ti cadono addosso possono farti male oppure farti molto bene. Insomma una domanda può cambiare la vita perché, come scrisse Herder, “l’uomo prende forma a seconda delle mani in cui cade” e le domande producono una forma, plasmano la vita di chi le riceve.
Una domanda, dunque, può ucciderti, ma può anche salvarti la vita. Quante e quali altre domande avrebbe potuto fare quel padre se non fosse stato roso dall’angoscia per la serenità e l’incolumità della sua bambina, se solo fosse stato più sereno?
Ripenso alle domande che hanno dato forma alla mia vita: a quelle di mia madre sulla mia salute, a quelle di mio padre sulla mia sistemazione, a quelle dei miei insegnanti. Sono cresciuto, scolasticamente, durante il regno del pensiero lineare e, nonostante alcune straordinarie eccezioni non-lineari a cui devo molto, mi sono state fatte quasi esclusivamente domande a risposta chiusa e con una sola variabile: giusto o sbagliato.
Domande insincere in fondo. Più precisamente test di verifica più che domande. In questo clima ho indossato anch’io temi di italiano come maglioni aderenti, tessuti con il filo dell’ortodossia grammaticale e sintattica, e ho nascosto nelle mutande i racconti che scrivevo per me stesso.
La sera stessa di quel fugace incontro all’uscita del catechismo, mio figlio mi dice che la catechista ha minacciato: “Ogni domenica mattina tutti a messa: chi non viene passa i guai!”. Ecco: la domanda di quel padre, cosi come la sua angoscia, se proprio dovevano esserci, potevano essere direzionate meglio: non sui bambini ma sugli adulti che se ne occupano.
Sempre quella sera mi scrive Jurik da Basilea e mi segnala una illuminante quanto divertente conferenza di Ken Robinson (1) sull’educazione e io capisco che tutte le cose accadono nello stesso giorno per un motivo preciso: affinché io capisca.
1 http://www.youtubecom/watch?v=dlth
{xtypo_quote}Quanto male può fare una risposta?{/xtypo_quote}
Visti da lontano e dall’alto sembrano grappoli di funghetti riparati a centinaia sotto i tronchi della grande pineta della vecchia comunità. E invece sono ombrelli e ombrellini: quando piove cosi e complicato arrivare fino alle scale della scuola elementare e la strada e il cortile sembrano una festa di paese rovinata dal maltempo. Vicino a me una bambina cala la mano che tiene l’ombrello e, in attesa di veloci istruzioni, con lo sguardo chiede a suo padre cosa ne deve fare; lui, risolutamente, la libera dall’ingombro e le dice “lo porto via io sennò te lo rubano”.
Mentre tra me e me emetto una sentenza dialettale il cui senso gli autoctoni intenderebbero chiaramente, la bambina che nel frattempo si era girata per salire le scale si gira nuovamente su se stessa, afferra il padre dall’impermeabile, lo tira a se e gli stampa un bacio sulle labbra. “È pazza di lui” mi dico e dentro di me, chiarissima, l’invidia mi scuote (apro una parentesi: non avere una figlia femmina e un vuoto che mi ingombra sempre più man mano che invecchio; chiusa la parentesi).
Il punto non e che è pazza di lui: ciò che mi suggestiona e che si fida ciecamente di lui, dei suoi consigli, delle sue istruzioni per l’uso. Si fida di chi non si fida. Si fida di chi diffida. Si fida di chi la istruisce a diffidare (delle sue amiche e dei suoi amici, della maestra…). Meccanismo perverso.
Lo immagino elargire istruzioni di questo tipo anche in altre situazioni, magari anche indirettamente: mentre aspettano di entrare dal pediatra lui dice a sua moglie che in fondo non si fida del pediatra che sicuramente fa solo il suo interesse; gli arriva il verbale dell’assemblea di condominio e dice che non si fida dell’amministratore che sicuramente fa i fatti suoi; devono partire per le vacanze con gli amici e dice che vuole mettere in chiaro un po’ di cose perché altrimenti gli amici fanno qualche ciambotto (vuol dire zuppa di pesce ma dalle mie parti si usa per dire imbroglio); va trovare la nonna e dice che sarebbe meglio sistemare per tempo la questione dell’eredità che non si sa mai come va a finire con i suoi fratelli. E lei, la figlia, ascolta e prende nota. E con queste note costruisce la sua matrice delle relazioni familiari, amicali, sociali. E con questa matrice disegna la mappa delle sue relazioni familiari, amicali, sociali. E in base a questa mappa modulerà la sua capacità/ possibilità di affidarsi e confidarsi.
La guardo allontanarsi mentre suo padre e già andato via (a nascondere l’ombrellino?). Lui lo immagino preoccupato, di quella preoccupazione persistente, soffusa, costante, che ti priva di quella ordinaria serenità che serve per respirare, che ti impedisce di gioire e di ringraziare qualcuno o qualcosa per ciò che hai e che fai. E un po’ mi dispiace.
Lei (se solo potesse immaginarlo) mi fa venire in mente Alice che nel Paese delle Meraviglie si fida e beve le diverse pozioni, si fida e attraversa i giardini, si fida e insegue il coniglio, si fida e si siede a tavola, si fida e discute discussioni che altrimenti non avrebbe potuto discutere. Fidandosi Alice attraversa il mondo delle meraviglie, si trasforma continuamente e contribuisce a trasformarlo. Alice - ecco il punto - non solo si fida, non solo si affida, non solo si confida: Alice anche si sfida.
E allora mi chiedo dove si metta la differenza tra fidare e diffidare, tra proteggere e rischiare, e intuisco ancora una volta che si mette esattamente nel punto di accettazione della complessità: la spinta a diffidare nasce dal tentativo (disperato, nel senso di senza speranza di successo) di ridurre la complessità, di semplicizzare la realtà.
È, questa operazione di banalizzazione della realtà, questo bisogno di tenere tutto sotto controllo, questa classificazione compulsiva della realtà in categorie manichee, una vera e propria ordalia, ben più pericolosa dell’azzardo di attraversare la realtà a testa alta. È come giocare a una tragica mosca cieca portando per mano una bambina che, mentre costruisce la sua benda, impara a muoversi a tentoni.
Ma a chi giova negare la complessità?
{xtypo_quote}La banalità del bene{/xtypo_quote}
Non la conosco, non so chi sia, non l’ho mai vista. Non so neanche con chi parlava. So soltanto che ha chiuso una telefonata di lavoro con un insopportabile “I love you”.
E cosi mi e partito il flashback: anni fa incontrai, per una brevissima riunione, i responsabili di una cooperativa Non ci conoscevamo. Mi avevano chiesto di supervisionare le attività di un nuovo servizio molto complesso. Il tono della breve chiacchierata rimase molto formale. Rimandai al giorno dopo una prima risposta di massima. La mattina dopo suonò il mio cellulare e da un numero sconosciuto una voce sconosciuta mi salutò con un agghiacciante “Ciao CUORE” (!) e poi mi chiese se avevo deciso qualcosa rispetto a quella proposta.
(Voglio precisare subito, a beneficio di Margherita e Fabio, che il mio problema non scaturisce dal fatto che tra di loro si chiamano “Amò” ma dal fatto che nel corso della sola ultima volta che abbiamo cenato insieme ho contato 138 “Amò” prima di svenire. E di decidere definitivamente di scriverlo questo appello).
Non lo si dice per la moneta ma per le parole e i concetti lo si può affermare tranquillamente: l’inflazione produce banalizzazione e, dunque, svilimento.
Le parole perdono il loro reale significato, evaporano il sentimento di cui dovrebbero essere il suono, svendono la loro importanza. La vacuazione delle parole dissipa la loro gravità.
Che ci sia un nesso inestricabile tra peso specifico delle parole e quantità e cosa acclarata da secoli: da sempre chi usa poche parole trasmette saggezza e sapienza, e invece mette a disagio chi ne usa troppe. Ve lo immaginate Toro Seduto logorroico che per farlo stare zitto bisogna prenderlo a schiaffi? O il capitano Achab che usa i tic linguistici come un qualunque personaggio innamorato di Alberto Sordi? Ve li immaginate Paolo e Francesca, Laura, Beatrice, Giulietta e Romeo, Cirano usare amò e tesò né più né meno che come interlocuzioni?
Ci è stato insegnato in tutti i modi che ciò che e importante, ciò che e prezioso, deve essere sottratto al discorso mondano delle parole quotidiane, non deve essere nominato invano, può arrivare addirittura a essere segreto, da non sentire, da non vedere, giacché la parola può essere potente e da sola potrebbe bastare: parola è sinonimo di impegno e onore (dare la propria parola, prendere in parola), parola è sinonimo di diritto e di potere (dare la parola}, al suo apice parola è espressione di potenza (dì soltanto una parola ed io sarò salvato).
C’è un altro motivo di scandalo che in questa pratica di vacuazione pare sfuggire ai suoi utilizzatori e alle sue utilizzatrici finali: essi ed esse, infatti, non si rendono conto di preferire un sostantivo a un nome proprio di persona, di sottrarre dalla persona amata la sostanza del suo nome proprio. Nome proprio che e l’origine della sua narrazione.
Kant, infatti, scrisse che è l’atto di dare il nome la vera nascita: si è nati davvero solo quando si ha un nome, si esiste se si ha un nome. Avendo un nome si è qualcuno. Col proprio nome, nella nostra tradizione, si è anche per qualcuno (per esempio per la nonna il cui nome ereditiamo). Col proprio nome si è anche di qualcuno: perché dare il nome è una affermazione di possesso (e per questo nella nostra tradizione maschilista si trasmette il cognome paterno). È per questo che tantissime persone impongono un nomignolo alla persona amata, quasi fosse un battesimo: quel nomignolo esclusivo e una trappola linguistica che sancisce una relazione di possesso, materializza il sogno di dare una nuova vita a quella persona cancellando insieme al suo passato la sua soggettività unica e irripetibile. E irriducibile. Materializza il sogno di non dover fare i conti con la sua libertà.
Sottrarsi a questi tic linguistici significa affermare con dignità la propria insopprimibile pluriversalità.
Sottrarsi a queste trappole linguistiche significa sottrarsi a un modo di essere della relazione inaccettabile perché opprimente.
In qualche modo, per qualche ragione, la nientificazione dell’altro comincia sempre con la vacuazione delle parole che lo riguardano.
{xtypo_quote}Un maledetto muro{/xtypo_quote}
Qualcuno ha scritto questo commento a un mio post: “Poiché sia di pazienti psichiatrici che di assassini ne abbiamo già troppi italiani, malviventi e folli di altri paesi possono e devono essere rincasati forzatamente”.
E devo dire che sono completamente d’accordo: effettivamente che ognuno si tenga i suoi di malviventi e di folli! Gli italiani in Italia e gli stranieri a casa loro. E siccome non si può sapere prima chi si rivelerà delinquente e chi folle, evitiamo il problema alla radice facendo in modo che ciascuno stia a casa sua. Chiudiamo le frontiere una volta per tutte!
Questa cosa mi convince così tanto che voglio andare oltre: che ogni regione italiana si tenga i suoi di delinquenti e di folli! Basta con questa mescolanza di razze italiche, basta col consentire che ciascuno possa girovagare dove gli pare e piace: se esistono, le regioni, ci sarà un motivo…. E allora: chiudiamo le frontiere tra le regioni e le cose andranno meglio per tutti.
Anzi, all’interno di ogni regione sarebbe meglio che ogni provincia si gestisca i suoi delinquenti e i suoi folli perché le province non sono mica dei confini fittizi: i salentini, ad esempio, mica sono come i foggiani! E allora ognuno a casa sua! Quanto potrà costare, in fondo, mettere delle frontiere tra le province?
Che poi, per dirla tutta, anche nell’ambito delle stesse province, mica i diversi comuni possono porsi il problema dei delinquenti e dei folli dei comuni limitrofi: ci sono anche problemi di bilancio!!! Se i delinquenti e i folli si mettono ad andare in giro tra i diversi comuni e il caos... Che le Polizie Municipali istituiscano delle frontiere tra i comuni prima che sia troppo tardi!!!
Effettivamente, però, c’è il problema che le città sono divise per quartieri e, si sa, ogni quartiere ha già i suoi problemi: secondo me col prezioso supporto della Protezione Civile, che e specializzata nel riportare l’ordine dove c’è il caos, si potrebbero agevolmente installare dei posti di blocco tra i diversi quartieri, in particolare al confine con quelli popolari. Piccolo e bello, in fondo… e chiuso e ancora più bello!
Ora che ci penso: il figlio della signora dell’ottavo piano non me la conta giusta con quei capelli lunghi e tutti quei tatuaggi... Adesso scrivo all’amministratore affinché faccia montare immediatamente delle cancellate tra un piano e l’altro del mio condominio (quanto invidio quelli che abitano nelle ville, ma solo in quelle monofamiliari!!!) e anche tra una porta e l’altra di ciascun pianerottolo: e che istituisca anche delle ronde di volontari condominiali.
Ma perché mio figlio mi guarda così? Mi sa che è meglio se di notte chiudo a chiave la mia stanza da letto. .. non si sa mai.
Durante un concerto al Petruzzelli di Bari (credo fosse il 1984) Francesco De Gregori ci fece una sorpresa: fece salire sul palco, assolutamente a sorpresa, Ivano Fossati e gli cedette il posto. Fossati suonò La musica che gira intorno che era uscita da poco.
O meglio: tentò di suonare. Perché dal loggione un gruppo di amanti della purezza cominciò a fischiare pretendendo il ritorno immediato di De Gregori sul palco (FRAN-CE-SCO-F‘RAN-CE-SCO-FRAN-CESCO-BUUU-BASTA).
Fossati riuscì a fatica a finire il pezzo e lo concluse puntando un dito verso il loggione e scandendo, parafrasandola, la strofa finale: “sarà la musica che gira intorno, quella che non ha futuro, o sarete voi che avete nella testa un maledetto muro” (detto tra parentesi: quando De Gregori tornò sul palco li fece neri).
il libro si può acquistare qui