Per gentile concessione dell'autore, pubblichiamo l'introduzione di "Educare e punire - L’esperienza educativa nella difficile impresa di 'liberare' e 'contenere' di Mario Schermi" (edizioni la meridiana, 2016)
Introduzione
Ritrovamenti e dimenticanze pedagogiche
Quando si tratta di educazione, non c’è scienza capace di mettere al riparo i saperi via via costruiti. Il discorso pedagogico, ogni volta, si ricompone in “universi di valore”, in cui esperienze e pratiche provano a prendere un certo ordine, a partire dall’interpretazione che una certa comunità di uomini e donne dà all’attesa del crescere. Quest’attesa circa il crescere di ciascuno, di ciascuno con gli altri e delle comunità, rinvia le esistenze delle persone infinitamente ben oltre le spinte e le disposizioni biologiche dell’individuo e della specie. Al discorso pedagogico ritorna, quindi, il compito, sempre aperto, di determinare coerenze possibili, per informare e sostenere gli interventi opportuni nelle diverse storie di crescita.
Nel tentativo di comporre un ulteriore discorso psico-socio-pedagogico, lo sforzo del presente lavoro è di chiamarsi intorno a una questione, per molti aspetti cruciale, dell’esperienza educativa, che da tempo però risulta poco esplorata e interrogata. È intenzione, qui, di provare a recuperare, riconoscere, attraversare – se ve ne sono – i significati pedagogici inscritti nelle pratiche punitive.
Si è senz’altro consapevoli di inoltrarsi per sentieri faticosi e, soprattutto, “fastidiosi”: le pratiche punitive rinviano ai vissuti di sofferenza, agli esercizi subiti/agiti del potere, alla responsabilità dell’errore. Faccende, queste, che mal si combinano con una versione “eulogica” dell’educare – oggi pure così diffusa – che proietta la cura per la crescita verso sereni e accoglienti slanci vitalistici, vieppiù promettenti vita nuova e vita buona.
Di contro, però, proprio inoltrandosi per i “fastidiosi” sentieri del punire, occorre non distogliere l’attenzione critica verso quelle “pedagogie nere”, che, per l’intero arco della storia dell’educazione, hanno menato il crescere, abusando della forza, adoperando la violenza, imponendo il “cambiamento” sia quando hanno perseguito interessi egoistici, particolaristici sia quando hanno invocato necessità comunitarie, universalistiche.
È compito di questo lavoro provare a esplorare, se e in quale misura, sia “pedagogicamente sostenibile” il ricorso alla pena, e se sia, in qualche modo (moralmente, eticamente, ecc.) tollerabile la somministrazione del dolore, sia pure nell’attesa della crescita dell’altro. Transitando per lo snodo del punire, si tratterà anche di comprendere se all’educare siano ascrivibili funzioni come il “controllo”, il “contenimento”, l’“orientamento normativo”, la “regolazione”.
Certo, tutto questo questionare non può che apparire complicato, insidioso e, financo, ambizioso. Si è, infatti, consapevoli di come, ogni qualvolta che la punizione fa capolino nelle nostre rassicuranti pratiche riflessive o nelle civili pratiche interpersonali e sociali, il senso comune tenda a prendere le distanze, la sensibilità diffusa tenda a rimuovere, la politica tenda a minimizzare, la letteratura scientifica tenda a semplificare. Tuttavia è proprio facendo appello al rigore del discorso pedagogico, che qui si chiede di mettere pur sempre a tema ciò che importa al crescere e di emendarsi da dimenticanze e rimozioni utili a presidiare soltanto gli aspetti promozionali dell’educare. In una parola occorre provare a fare un po’ di chiarezza, soprattutto laddove la questione educativa si fa più insidiosa.
Si cominci con il condividere questa emergenza: oggi il punire, il castigare, sembrano riscuotere uno “scarso credito psico-socio-pedagogico”, tanto da apparire confinati, nelle scienze dell’educazione e nel senso comune, tra gli attrezzi un po’ vetusti di un certo modo di intendere l’educare (roba dell’altro secolo!). Tuttavia, però, è indubbio che nelle nostre pratiche private, così come nelle nostre pratiche pubbliche, si continui a ricorrere alla punizione (ai castighi, alle pene) ogni volta che gli ordini (relazionali, sociali, normativi) sono stati violati o anche soltanto messi a rischio. Così come è altrettanto indubbio che i provvedimenti punitivi siano, pur sempre, accompagnati da sicuri auspici di ravvedimento, ovvero da determinate ambizioni educative. Ma allora: che ne è dello scarso credito?
A fronte di simili posizionamenti e di simili inerzie, sembra necessario provare a formulare qualche domanda, nel tentativo di promuovere una maggiore chiarezza, tanto nelle riflessioni pedagogiche quanto nelle pratiche educative.
Allora, sono poi così sostenibili le tesi pedagogiche che escluderebbero il ricorso alle punizioni, quali soluzioni incapaci di promuovere, orientare il crescere del soggetto? Sono legittime le interpretazioni che scorgerebbero, nel e dietro il punire, le intenzioni, neppure così velate, di perpetrare un “abuso educativo”? Che ne è di quell’educazione, che pure attraverso il punire intendeva intervenire? In quei casi, rinunciare a punire può voler dire anche rinunciare a educare? E, ancora, sul versante delle pratiche, giacché – come detto e com’è nell’esperienza di molti – si continua a punire, in assenza di un conforto pedagogico, non c’è il rischio che, sotto il peso di un certo “scrupolo”, semplicemente si punisca meno (o affatto), rinculando verso soluzioni soltanto più sbiadite, meno afflittive, solo annunciate, minacciate ma, di fatto, anche poco “credibili”, perché imbarazzate e distratte? E non c’è il rischio che, infine, si punisca “male”, senza la necessaria attenzione, senza elaborazione, così un po’ automaticamente? Non ha forse ragione Kant quando richiama affinché le punizioni siano “applicate con prudenza per non far sorgere una indoles servilis”?
È evidente che queste domande non annunciano facili risposte. I movimenti della sensibilità contemporanea intorno al punire appaiono confusi e contraddittori. C’è, per un verso, una diffusa richiesta di punizione, per soddisfare un “bisogno emotivo di sicurezza”, per l’altro c’è un’ulteriore attesa di umanizzazione, perché si possa garantire, con maggiore attenzione e cura, il rispetto della dignità del punito e perché a ogni punizione possa seguire un’esperienza di ricomposizione. Le richieste di maggiore cura e maggiore sicurezza, però, non sono che le propaggini di un altro sentire, ancor più diffuso. Nel mezzo di questa oscillazione, dall’intimità delle nostre case fino alla solennità delle aule di tribunale, infatti, sembra distendersi una “grande distrazione”. Si tratta del liquefarsi delle posizioni etiche, delle posture sociali, dei riferimenti normativi che, in nome di una libertà e di una tolleranza rivendicate innanzitutto per l’individuo, fanno sì che i “patrimoni pubblici” e i legami sociali vengano compromessi e, infine, dissipati. L’allentamento, la rescissione dei legami, cioè, proprio mentre libera, alimenta una certa irresponsabilità, che rende più svincolati dal risponderne, nonché una certa immoralità, che rende più disinvolti nel corrompere e, a suggellare il circolo vizioso, anche una certa impunità, che rende più sereni nel sacrificare i beni pubblici. Pertanto, forse puniamo anche meno, ma occorre comprendere se ciò è l’esito di una conquista o la deriva di una repulsione (nel merito), di un imbarazzo (agli occhi degli altri), di una abdicazione (alle proprie responsabilità).
Sia detto con una certa cautela, ma, probabilmente, una parte della “crisi” del discorso pedagogico, da più parti esibita sulle soglie e fin dentro la contemporaneità, può trovare in questa distrazione una chiave dei propri smarrimenti. Sì che, la crisi del pedagogico sarebbe inscritta nel più ampio raggio della crisi che, tra ’800 e ’900 in Occidente, ha preso a scompaginare le figure del Soggetto e della Comunità, fino quasi alla loro estinzione. In questo senso, e consapevole delle sue modestissime possibilità, questo lavoro coltiva gli auspici di riuscire a sollecitare e accompagnare anche possibili ritrovamenti, perché il discorso pedagogico, nell’intreccio delle sue diverse funzioni educative, possa di fatto tornare a partecipare alla formazione dell’uomo e del mondo che verranno.
Più da vicino, qui si tratta di provare a problematizzare, a partire dalle pratiche punitive, quell’area dell’educare che si colloca tra le funzioni (educative?) del contenimento e della regolazione, per comprendere se è pensabile intervenire nelle storie di crescita anche con “forzature pedagogiche” e per comprendere se sono praticabili “forzature educative” come “occasione di crescita”, al di qua dello scatenarsi della violenza (pure, così evidentemente in agguato).
Per altri versi, però, qui non si intende recuperare e riconsiderare la prospettiva ri-educativa, a cui dovrebbe essere rivolto il punire, più o meno in polemica con altre prospettive punitive (retributive, ristorative, ecc. e magari alla ricerca di ciò che è più “utile”), quanto, piuttosto, provare a rispondere all’urgenza di ripensare l’educare anche nelle sue funzioni più contenitive, normative in cui è (forse) possibile comprendere financo le pratiche punitive. Detto altrimenti, qui, l’“oggetto di studio” non vuole essere la punizione, ma l’educare, tra le cui pratiche, almeno storicamente, si era soliti riconoscere castighi e pene. Il tentativo è di comprendere un educare chiamato a promuovere ma, forse, anche a contenere; chiamato ad abilitare, ma, forse, anche a correggere; chiamato ad accompagnare, ma, forse, anche a orientare. Ciò perché si ritiene sia dell’educare, senza soluzione di continuità, oscillare tra il singolarizzare e il socializzare, l’individualizzare e il generalizzare; e in questo insanabile e ineludibile conflitto, chiedere all’altro di trovare un possibile equilibrio tra idem e ipse.
Cimentarsi in una riflessione pedagogica, nell’abbrivio di una pratica educativa così esposta come il punire, consente di attestarsi in quello scarto “quasi materiale” che vincola, colui che ha responsabilità nell’azione educativa, a riconoscere in che senso e in quali forme il proprio agire è opportuno per il crescere e, quindi, se può infine davvero dirsi “educativo”. In ciò è possibile ritrovare quell’antico “lavoro dell’educare” che è, tra l’altro, esercizio infaticato di riflessione, “lavorio”, ricerca che, non potendosi avvalere di “teorie generali”, idiograficamente, storia per storia, situazione per situazione prova a cimentarsi in risposte capaci di sostenere e promuovere comprensioni, coerenze, di un pensare-agire educativo attento e responsabile della vita che ne verrà.
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