“La petite”, di Michéle Halbertstadt – L’orma editore, 2013
Una grande solitudine in un’abitudine sorda
La petite è un piccolo romanzo, uscito in Francia nel 2011 e a gennaio del 2013 in Italia. Questo piccolo libro tutto rosa e minuto, minuto come minuta è Monique, la protagonista, ha un inizio quasi folgorante, che rimanda in qualche modo all’incipit di Amabili resti di Alice Sebold e all’apertura straziante di American Beauty. Il racconto nel libro comincia così: “Ho 12 anni e questa sera sarò morta”. Questo dice Monique quando inizia a parlare con noi. Ed è lì che, lettrice, ho cominciato a sperare che la narrazione smentisse quella perfetta sintesi generatrice di un vuoto insanabile. Il vuoto che lascia la morte di un bambino, in questo caso una bambina.
Non è, La petite, un romanzo straordinario, e allo stesso tempo è uno straordinario strumento di ascolto del nostro silenzio, di genitori e insegnanti e fratelli e amici. Non è originale e non sperimenta linguaggi, non rivela narrazioni inquietanti, se non l’abissale inquietudine di quel che accade nell’abitudine delle famiglie, delle scuole, delle relazioni familiari: un ascolto che non può sentire, forse perché immemore dei linguaggi e dei vissuti, forse perché impaurito di fronte ai vuoti che le cose lasciano a noi, mentre siamo e cresciamo. Per esempio la perdita di un nonno, o il fantasma gigantesco della perfezione presunta di un fratello. Una grande solitudine in un’abitudine sorda è quel che sente, e che descrive, Monique. Un diario di lettura del nostro provare a capire come provare ad avere, (per i nostri figli e fratelli, e per noi stessi), il tempo e le parole. Tanto sola, e così tanto impaurita Monique (da un sé che non si riesce a formare), da costruire un diario di carta, con tanto di nome e di vita, che persino si nomina, ha un nome e una storia, e che si chiama Laure. Laure è bellissima, ha un’aura, è la bambina altro da sé che Monique lascia esistere solo dentro di sé, per pensare di essere esattamente quello che potrebbe essere.
Mi sono chiesta come mai questo libro avesse scavalcato alcuni libri che si sono accumulati sul mio scrittoio in queste settimane, libri che sperimentano e ridefiniscono linguaggi, facendosi imperiosamente desiderare e leggere. Nel desiderio di lettura, e nella lotta contro il tempo, questo piccolo libro ha vinto decisamente dentro di me, si è fatto largo a spintoni, come avrei voluto facesse Monique, e l’ho divorato d’un fiato lasciandomi rubare il tempo, in uno spazio che ho preso solo per lei, in una stanza tutta per me. La ragione credo che sia stata intima e personale. Ha a che fare con due cose che entrano ogni giorno nella mia vita, in questi anni con insistenza maggiore che in passato: il pensare la scuola (da quando ho un figlio che la frequenta) e il pensare la vita e la morte.
Pensare la scuola è stato da ragazzina, per me, quanto mai un tormento. Avevo e coltivavo un anarchico sentimento di indifferenza alle gerarchie, e mi consideravo per sempre libera dai non dialoghi e dalle esternazioni di onnipotenza dell’io insegnante. Ed ecco che son risaliti tutti (i non dialoghi) ascoltando i sentimenti di Monique, quel non sentire sufficiente prossimità all’autentico tra le mura di scuola. Credo che la ragione fondamentale di questo peso da incomprensione abbia una radice che lo fonda. E che questa radice porti il nome preciso di ansia del tempo. Tempo per svolgere i programmi, tempo di studio, tempo per valutare, tempo di formazione, tempo per programmare, tempo per i genitori, tempo per sé. Insomma, più guardo a tutto questo silenzio rumorosissimo che vedo e sento quando penso la scuola, più mi sembra possibile che una qualche inclinazione al miglioramento possa venire da una riflessione vera sul valore dei minuti e delle ore. Una vorticosa nostalgia per un vissuto che sappia dare tempo al tempo, tempo alle persone, tempo alle parole. Quel tempo che Monique ha abitato di pillole e sonno, e non domande non bisognose di risposte. Tempo che ha reso così duro, leggendo, andare avanti dopo pagina 1, a pagina 2 e poi a pagina 3.
La seconda cosa è il pensare la vita e la morte. Dodici anni sono un tempo brevissimo per poter davvero pensare la propria morte. Sono però sufficienti a comprendere, da dentro, cosa sia l’assenza. La morte dell’altro. Sono un tempo che basta ad aver bisogno che quel silenzio di cose e persone, quell’assenza di doni nel quinto cassetto in basso di cui ci parla Monique, possa istruirci all’attenzione. E di nuovo, temo, all’uso rispettoso e dovuto del tempo. C’è bisogno di tempo per ascoltare, c’è bisogno di tempo per leggere le cose e le emozioni, c’è bisogno di tempo per trovare le parole. Nessuna cosa, e nessuna risorsa, in assenza di tempo, riesce a dare e a fare. A farsi.
Ecco quindi che io ora comprendo come il piccolo libro abbia trovato la sua strada per essere letto, per primo fra gli altri, una strada arrischiante che ha dichiarato il suo bisogno di unità, di rispetto, e di ascolto. Ho amato molto Monique, e la forma perfetta del suo ritorno a casa, in una casa in cui ogni cosa parla, esattamente. Non so se si tratti di un libro indimenticabile, non so se sia un po’ come una canzone di Cristicchi, così velato di tenerezza e dolore da risultare evanescente se non lo si ascolta per davvero. Credo però che dovrebbe andare nelle tasche dei cappotti di molti di noi, di molti insegnanti, di molti fratelli e sorelle, di molti genitori. Di molti piccoli vicini di Monique. Sicuramente nelle mie, perché a volte vado contro il tempo invece di abbracciarlo. Per certo so, però (ma non vi deve interessare ora, se siete quelli che non voglion mai sapere come finisce un libro od una storia), che la cara Halberstadt, generosa narratrice che dedica il libro a sua figlia, ha ascoltato la mia terifficata preghiera iniziale, e ha condotto Monique alla vita, e non alla morte. E di questo, da lettrice, da figlia, e da madre, le sono immensamente grata. Ho respirato, dopo una lunghissima apnea.
(da: BergasseStress, postumi del 900 – www.nerinagarofalo.com)