Il libro è un piccolo oggetto, celeste come il suo titolo, un piccolo gioiello della Adelphi di un po’ di anni fa. E’ “Corpo celeste”, raccolta di riflessioni e interviste di Anna Maria Ortese, una delle più grandi e trascurate scrittrici del nostro Novecento (dove “nostro” vuole dire come minimo “europeo”). Rileggendo dopo più di dieci anni questo piccolo testo alcune frasi colpiscono la mente perché ancor più oggi di ieri dotate di straordinaria attualità e soprattutto di una profonda rilevanza pedagogica, tipica di quella che definisco “pedagogia dei non pedagogisti”.
{xtypo_quote_right}In questo, biologia e storia si danno la mano (come dovrebbero ormai avere imparato a fare dopo Darwin); e proprio questo dovremmo trasmettere ai ragazzi, a scuola e fuori: il senso di una memoria, di una continuità, di una attesa che ci ha permesso di nascere e che ci riempie di responsabilità.
{/xtypo_quote_right}
Profondamente pedagogica è infatti la consapevolezza di quale forma di individualità serva a una democrazia per crescere realmente come sistema compiuto di governo ma soprattutto come costume: e il costume di un popolo è soprattutto il suo linguaggio: “La libertà nazionale comincia con l’imposizione di un linguaggio, oppure, al contrario, con la distruzione sistematica del linguaggio originale di un paese” (p. 24) e leggendo la denuncia di una “aratura imponente del suolo umano” (idem) non possiamo fare a meno di riflettere su come il linguaggio del web, dei new media, del globish stia realizzando qualcosa di peggio nella lingua dei nostri giovani. Ma il problema della lingua si allarga e diventa problema di espressione: “Se la democrazia dovrà diventare un giorno il mezzo più adatto a una certa felicità, io credo che il problema espressivo –il problema di una reale individualità- dovrà occupare tra la gente forse il primissimo posto” (56). Un individuo reale è un individuo che sa esprimersi (e qui la Ortese da idealmente la mano a Pasolini e a don Milani). E questa, non mi stancherò mai di dirlo, è la prima e più importante responsabilità della scuola: insegnare ai bambini e ai ragazzi a esprimersi, attraverso la lingua, il corpo,la musica,la poesia, la matematica, la chimica.
Certo, i bambini e i ragazzi devono imparare a creare: “Il problema massimo del mondo (…) sia avere dei bambini in grado di entrate nel mondo cosiddetto adulto creando, essi stessi e non invece appropriandosi o distruggendo” (60); ma non si crea nulla se non si è in possesso di un linguaggio, la creazione è nulla se non si sa esprimere. Il sentimento o l’emozione che rimane chiuso e inespresso nell’animo dell’individuo perché non sa tradursi in parola o gesto inaridisce l’anima, fa morire la coscienza. E proprio le coscienze in grado di esprimersi sono la vera ricchezza di un paese, di fianco alle ricchezze naturali: “Un paese, come non deve mancare di corsi d’acqua, di sorgenti, di nuvole deve avere cura, o consentire la crescita, di anime, coscienze, grazia, linguaggi puri, ombre azzurre altissime: o perirà. Si asciugherà il suolo, se mancano acque e foreste, si perderà la nazione se mancano anime e coscienze” (32).
Ma insegnare a esprimersi, insegnare linguaggi e modalità espressive, significa sottrarsi alla moda imperante di un Nuovo non fondato, senza radici, di una rottamazione sistematica di tutto ciò che viene prima di noi: “Quando da una cultura (…) manchi questo senso dell’esterno, della cosa che era prima –e sono un esterno e una cosa di meravigliosa gravità- la cultura non ha vita, come, privata di ossigeno e di attività del respiro, non ne ha la doppia foglia di un polmone.” (45). Perdere la memoria significa costruire una casa sulla sabbia, illudersi e illudere che il mondo possa ignorare l’attimo passato; e soprattutto illudersi e illudere che con l’uomo, anzi con l’homo oeconomicus il mondo inizi da capo, facendo tabula rasa del suo passato: “Dovunque vi siano occhi che guardano con pace o con paura, là vi qualcosa di celeste (…) La Terra è un corpo celeste, la vita che vi si espande da tempi immemorabili è prima dell’uomo, prima ancora della cultura” (52). Dunque la percezione –fisica prima ancora che mentale- del fatto di “essere stati attesi sulla Terra”, come direbbe Benjamin, è la sola possibilità di pensarsi e sentirsi parte di una storia e di un futuro e a questo proposito la Ortese regala in una riga di una intervista una straordinaria intuizione sulla quale occorrerà lavorare a lungo: “Manchiamo dunque di memoria storica, ma ancor di più manchiamo di memoria biologica, di visione e coscienza del momento prima come del momento successivo” (127). Come possiamo infatti pensare di trasmettere la memoria generazionale a bambini che non son educati a cogliere la memoria biologica ed evolutiva della specie? Come possiamo pensare che rispettino i padri e i nonni ragazzi che non sanno rispettare l’albero e l’uccello, la lumaca e lo stagno, leggendo in essi il proprio passato e il proprio futuro?
{xtypo_quote_left}ileggendo Anna Maria Ortese non si può fare a meno di cogliere come la pedagogia trovi spesso le sue migliori intuizioni negli autori che di pedagogia non si occupano; in questo caso, a partire dal discorso sul linguaggio e sulla memoria, si giunge a quella che dovrebbe essere la precauzione pedagogica implicita nella vita di ogni adulto: “Dovrebbe essere proibito, per legge, vivere pubblicamente una vita e un’attività dannose alla crescita di un minore
{/xtypo_quote_left}
In questo, biologia e storia si danno la mano (come dovrebbero ormai avere imparato a fare dopo Darwin); e proprio questo dovremmo trasmettere ai ragazzi, a scuola e fuori: il senso di una memoria, di una continuità, di una attesa che ci ha permesso di nascere e che ci riempie di responsabilità. Se la storia dell’evoluzione dell’Homo sapiens, la storia delle quaranta settimane trascorse nel grembo materno e la storia del Novecento non saranno in qualche modo trasmesse con la stessa scossa emotiva, radicandosi l’una nell’altra, allora non ci sarà speranza per la nostra scuola. Dobbiamo fare memoria dell’organismo unicellulare così come della Resistenza partigiana, ricordare il nostro primo giorno di scuola come il momento in cui i nostri antenati abbandonarono le acque e iniziarono la loro esistenza di anfibi.
E alla base di questa memoria che è individuale, storica e biologica ma che è una e indivisibile, c’è la percezione del dolore: “Una religione o una rivoluzione che non abbia per obiettivo la lotta contro tutto il dolore terrestre, e come fine una totale diminuzione, un ridimensionamento dell’uomo come padrone e arbitro del terrestre, lascerà continuamente, dietro di sé, il dolore e l’infamia che trova, anzi peggiorati” (131). Rileggendo Anna Maria Ortese non si può fare a meno di cogliere come la pedagogia trovi spesso le sue migliori intuizioni negli autori che di pedagogia non si occupano; in questo caso, a partire dal discorso sul linguaggio e sulla memoria, si giunge a quella che dovrebbe essere la precauzione pedagogica implicita nella vita di ogni adulto: “Dovrebbe essere proibito, per legge, vivere pubblicamente una vita e un’attività dannose alla crescita di un minore (…) con i minori io non farei complimenti, non direi tutto, dare anzi con mano stretta, ma gli lascerei intera, a proteggerli, la certezza che la loro vita, e quella di tutti, sia cosa sacra, impareggiabile” (112). La dimensione morale e quasi religiosa di cui è intriso questo splendido libretto celeste dovrebbe spingere il lettore a una riflessione sui nostri tempi di linguaggi stereotipati, di corifei del Nuovo a tutti i costi e di chi squalifica come “residuo ideologico” ogni discorso sulla dolcezza del mondo passato, sulle pecche del mondo presente e soprattutto sulla possibilità concreta e politica di un differente mondo futuro.