La tristezza è caratterizzata dal desiderio di piangere sentendo di non poter smettere di farlo, dal sentirsi stanchi e privi di energia, dal sentirsi svogliati e vuoti e dal desiderio di ripiegarsi su se stessi. Nulla sembra dare piacere.
L’idea di base è che l’individuo compia di continuo previsioni sul mondo, che gli consentono di sopravvivere nella nicchia ambientale nella quale si ritrova.
La tristezza è il sentimento collegato alla presa d’atto che un proprio scopo è stato, è o sarà inevitabilmente compromesso. Lo scopo può consistere in una promozione, in un amore, nell’affetto di un genitore, e costituisce sempre uno stato desiderato, o meglio, ogni scopo è esprimibile come una credenza sulla bontà di un certo stato.
Ad esempio, lo scopo di essere ricco altro non è che la credenza che “essere ricchi sia una cosa bella per noi”
La tristezza è sempre collegata ad una invalidazione già avvenuta oppure assolutamente certa di uno scopo. Se uno scopo fosse solo a rischio, proveremmo ansia o paura ma non tristezza.
Di conseguenza, la rinuncia ad uno scopo comporta sempre anche la perdita di un pacchetto predittivo, che crea un vuoto previsionale nel sistema cognitivo che va quindi riorganizzato. Alla base della tristezza non c’è dunque sempre e solo il lutto, ma anche una sconfitta od un insuccesso.
Riguardo al lutto, non è importante che la perdita sia reale ma quali e quante credenze e previsioni la scomparsa di questa persona porta via con sé.
La tristezza è sempre collegata ad una invalidazione già avvenuta oppure assolutamente certa di uno scopo. Se uno scopo fosse solo a rischio, proveremmo ansia o paura ma non tristezza.
Nel momento in cui si prende atto dell’invalidazione di uno scopo, la tristezza compare come un dolore acuto, quasi fisico, breve e intenso e la sua funzione è quella di segnalare il fallimento e di condurre il soggetto verso una riparazione e riorganizzazione.
La tristezza porta l’individuo a rinunciare allo scopo in questione e a perdere interesse per gli altri scopi, in modo da potersi ritirare e ripiegare in sé stesso, di potersi fermare per avere il tempo e l’occasione per costruire nuovi scenari e nuove possibilità. La tristezza ha quindi una funzione adattiva molto importante.
“Abbiamo troppa tendenza nella nostra cultura a pensare che essere tristi sia una cosa negativa, che bisogna esserlo il meno possibile. Ma vivere senza tristezza sarebbe una condanna ancora più pesante. La tristezza è un appello dall’interno, un appello intimo che chiede all’uomo di fermarsi. Gli dice che ha appena vissuto una cosa importante, e che non bisogna rimuoverla subito, non bisogna fare finta che non fosse niente. (…) La tristezza ci aiuta quindi a cercare con calma il modo di ripartire, di rilanciarsi sul viale della vita.”(Christoph Baker).
la tristezza prevede la rinuncia allo scopo,
la perdita di piacere, interessi, energia, il ripiegamento in se stesso,
l’aumento dell’ideazione e del rimuginio
Il vantaggio della tristezza è quindi che consente all’individuo di dare un senso alla sconfitta per poterne così trarre vantaggio e fare nuove previsioni, per trovare una via d’uscita, in un parola, un nuovo adattamento.
E’ questo il motivo “funzionale” per cui la tristezza non è rapida come le altre emozioni ed è invece di lunga durata.
La nostra mente cura le proprie ferite attraverso un’opera di automonitoraggio e ricostruzione.
Tutto ciò avviene attraverso la tristezza, che prevede la rinuncia allo scopo, la perdita di piacere, interessi, energia, il ripiegamento in se stesso, l’aumento dell’ideazione e del rimuginio ed infine un check-up del sistema per identificare gli scopi a rischio.
Quest’ultima è la fase di automonitoraggio: il sistema accerta i danni, verifica le risorse rimaste a disposizione, le sostituisce con quelle perse e verifica se la situazione sia migliorata.
Se il confronto tra la situazione attuale e quella antecedente all’invalidazione risulterà di uguale potenzialità predittiva, vorrà dire che le credenze passate sono state integralmente sostituite con altre colmando i vuoti predittivi, e allora la tristezza cesserà, il sistema interromperà il check-up, torneranno gli interessi e gli scopi e non ci sarà più bisogno di stare ripiegati su sé stessi.
Se invece il presente uscirà perdente dal confronto, allora il sistema stazionerà nello stato di automonitoraggio finchè nuovi scenari vengano implementati e il processo possa concludersi.
se ciò accade, infatti, il soggetto continuerà a porre
un’attenzione selettiva agli scopi a rischio,
ai possibili fallimenti e alle prospettive di perdita
Un aspetto quindi normale della tristezza è la presenza di una certa tendenza a ricordare situazioni simili in passato, che ha un valore adattivo, perché il confronto con situazioni passate, già sperimentate, può fornire all’individuo validi strumenti per uscire dall’invalidazione.
La tristezza può divenire un disturbo dell’umore quando questo processo si blocca e il sistema si arresta in questa fase di automonitoraggio.
Se ciò accade, infatti, il soggetto continuerà a porre un’attenzione selettiva agli scopi a rischio, ai possibili fallimenti e alle prospettive di perdita, gli verranno in mente ricordi di situazioni tristi simili e avrà così la tendenza a vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto.
L’attenzione selettiva alle cose negative aumenterà la tristezza che a sua alimenterà l’attenzione selettiva alle cose negative, creando così un circolo vizioso.