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Sarà, credo, capitato a tutti di sentirsi fuori posto, non solo e non tanto inadatti o inadeguati, ma proprio fuori luogo, o meglio, nel luogo sbagliato. In incontri, convegni o semplici cene, quando tutti sembrano legati da interessi comuni, o almeno fingono in maniera sublime, e noi vorremmo scomparire, essere ovunque ma non lì,

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per nulla interessati dalla campagna acquisti del Milan, o dall'ennesimo delitto già plastificato da Vespa. Non perché si sia meno frivoli degli altri, ma solo perché, magari anche solo in quell'occasione, lo si è in maniera irrimediabilmente diversa. E non è tanto la noia, quanto il disagio di stonare evidentemente con l'ambiente che ci avvolge a infastidirci e imbarazzarci.

Succede poi di trovarsi o sentirsi, "diversi": i peggio vestiti, i più i timidi, i più soli, in luoghi dove tutti sembrano disinvolti, interessanti e sicuri, in feste o riunioni alle quale non abbiamo saputo sottrarci e da dove poi, si vorrebbe fuggire o almeno scomparire.

Oppure capita, ed è come una malattia, di patire in quasi ogni luogo, insofferenti, insoddisfatti delle nostre scelte, della spendita del tempo, delle occasioni perse per raggiungerne altre che mai riescono a ridurre l'ansia di andare. E in definitiva insoddisfatti di sé, alla continua ricerca di un altrove dove poter pronunciare il mirabile "attimo fermati sei bello" di faustiana memoria.

O ancora, può capitare di trovarsi, inequivocabilmente, dalla parte del torto. Di sentirsi scomodi, seppure, a volte, pure inconfessabilmente fieri del posto conquistato in questa nicchia per pochi ultimi, sul banco degli imputati o tra vite di scarto, in luoghi, anche mentali, di disprezzo e accuse.

E capita, inevitabilmente, di trovarsi, talvolta, in luoghi o avvenimenti assolutamente inospitali, dove non avremmo mai voluto essere: sono lutti, malattie, tradimenti, ingiustizie, distacchi o fallimenti, da dove non vediamo l'ora di allontanarci seppure privi, talvolta, di vie di fuga.

Tutti siamo stati almeno una volta fuori posto.

Ed il disagio di quella sensazione ci resta addosso, indimenticabile come una cicatrice.

Loro, i profughi, sono perennemente fuori posto e più si spostano, meno posto per loro trovano.

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Basta vedere le immagini terribili e violente dei respingimenti fisici, molto prima che giuridici, che divise senza onore stanno compiendo in odio dei profughi per lo più siriani e afghani (tra loro tantissimi bambini), ai confini ungheresi, croati o serbi. Lacrime, filo spinato e sangue.

Oppure scovare le immagini e le notizie, meno diffuse, delle riammissioni inesorabili seppure meno sanguinarie, che ogni giorno si compiono nel confine (si fa per dire) tra Italia e Francia a Ventimiglia, dove centinaia di richiedenti asilo, tra scogli e stazione, aspettano un varco per passare, scappare ancora, nella speranza di trovare all'interno della Fortezza Europa qualcosa che assomigli all'accoglienza. Senza sbarre, manganelli e odio.

E poi ci sono immagini che non vedremo mai, come quella che immortala, negli occhi e nelle coscienze dei pochi testimoni, il rimpatrio coatto e cattivo di diverse decine di donne nigeriane richiedenti asilo, rinchiuse nel Cie di Ponte Galeria a Roma e trascinate a forza su un volo di rimpatrio verso le torture dalle quali erano miracolosamente riuscite a scappare. Una deportazione illegale e vigliacca. Costosissima, inutile e criminale.

Ecco, tutti e tutte loro sono sempre nel luogo sbagliato, al momento sbagliato.

E imparano presto a non abitare né luoghi né tempi. In perenne, repentino, convulso movimento. Si ammalano di viaggio e, forse, di speranza.

In faticosa attesa di asilo, di un rifugio dove sia concessa se non la resa, almeno la sosta.

Come direbbe Foucault, una sorta di utopia.

Precedentemente pubblicato da Repubblica Genova


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