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Ora come allora. Stessi luoghi, almeno in parte, stessa indecente sofferenza, stessa insensata burocrazia (con alcune varianti peggiorative), stessa, sperimentata ottusità dei poteri, stessa tenacia delle vittime e di chi le assiste.

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Stesse divise a imbrigliare sensibilità o accentuare arroganze individuali o corporative. Stessi corpi stremati, abbandonati al suolo di cemento o sulla spiaggia che ha sostituito gli scogli dei Balzi Rossi, ormai da mesi sgombrati dall'abusiva umanità, stessi sguardi vuoti e attoniti, stessa disperazione spesso muta.

Ce lo dicevamo con Pietro, tra una galleria e l'altra, nel viaggio verso il confine: forse si vede meglio con occhi vergini. Forse, se non avessimo già visto questa scena innumerevoli volte, potremmo indignarci con più determinazione e cogliere in una scena, che a noi sembra ormai immutabile, possibili punti di svolta.

Chi ha già visitato la stazione di Ventimiglia nel 2011, nei mesi successivi alla cosiddetta primavera araba, dopo l'ardita decisione del nostro governo di rilasciare a tutti i profughi in fuga da Libia e Tunisia un permesso umanitario -omettendo però di capire, prima ancora che di spiegare, che il diritto a soggiornare legalmente non sarebbe stato spendibile al di fuori del confine nazionale -, chi ha poi assistito impotente, mentre il sogno di libertà dei "gelsomini" (come venivano chiamati i giovanissimi partigiani nordafricani in fuga nel nostro Paese) si infrangeva contro i manganelli respingenti della polizia francese, chi ha assistito a fasi alterne alla loro disfatta e alla loro rivincita, in ragione. spesso, unicamente della mera fortuna, non può che guardare il ripetersi noioso e indecente di questa storia, con rassegnata curiosità.

Dopo quei caldi mesi del 2011, scanditi dai proclami allarmistici di molti politici e taluni giornalisti che gridavano quotidianamente all'invasione, la situazione sembrava essere tornata alla normalità. Ma chi in quella terra di frontiera ci vive sa che il flusso dei viaggiatori senza invito non si è mai arrestato, ma solo sapientemente diluito.

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A ponte S. Luigi i profughi non hanno mai smesso di tentare la sorte fuori dall'Italia e la gendarmerie francese non ha mai cessato di catturarli respingendoli al mittente. Pochi per volta. Alla chetichella.

Almeno fino a maggio dello scorso anno. Quando improvvisamente i respingimenti e le riammissioni dei profughi dalla Francia diventano più numerosi (anche 70 al giorno) e, in contemporanea, i richiedenti asilo appena sbarcati in Sicilia si trascinano faticosamente verso la stazione di Ventimiglia in attesa di proseguire il viaggio.

Tra chi arriva e chi viene respinto sono a centinaia i profughi che si trovano da maggio del 2015 accampati in stazione o negli scogli adiacenti ponte san Ludovico. Solo per 130 di loro si apriranno nei mesi a venire le porte del centro della Croce rossa allestito in fretta e furia accanto alla stazione. Per gli altri solo asfalto e oblio.

Saranno come sempre i volontari a sopperire alle mancanze delle istituzioni: verranno distribuiti da maggio in poi senza soluzione di continuità, medicine, coperte, vestiti, buoni consigli e cure. E ovviamente cibo e acqua.

Almeno fino a quando il sindaco di quel comune di confine il 2.7.2015 non vieterà "di somministrare su aerea pubblica... alimenti e bevande a favore dei medesimi profughi ad eccezione degli addetti operanti nell'ambito delle strutture gestite dalla Cri".

All'ordinanza seguirà a fine settembre lo sgombero definitivo del campo dei Balzi Rossi ove avevano trovato accoglienza e rifugio le decine di profughi in esubero rispetto ai 130 posti istituiti nel centro della croce rossa.

E cosi, di nuovo. Oggi, come allora, centinaia di profughi si trovano abbandonati per strada. Stesi senza forze nè speranze su giacigli di cartone sgombrati ogni sera dalla nettezza urbana e ogni sera recuperati dalla spazzatura.

Se questi orrori li vedi per la prima volta puoi credere che non siano immutevoli nè inevitabili. Ma se ti accade di assistere al ripetersi monotono e stolto della disumanità, la resistenza diventa un atto di fede.


Testo precedentemente pubblicato da Repubblica - Genova


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