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Se fossi un sudanese fuggito dal mio Paese, scappato dalla dittatura militare, se avessi attraversato deserti e prigioni e mare, se fossi miracolosamente scampato ad ogni invito di morte, se fossi approdato in qualche costa del sud Italia, se mi avessero intinto i polpastrelli

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nell’inchiostro a forza una mezza dozzina di volte, se la gratitudine di essere stato salvato da marinai e medici sconosciuti, avesse lasciato in fretta il passo all’indignata paura di essere rinchiuso o trasportato coattivamente, se mi avessero caricato di peso su pullman o aerei per farmi attraversare in lungo e in largo tutta la penisola senza mai informarmi di nulla né chiedermi dove volessi andare, se infine mi avessero prelevato di notte a Ventimiglia o a Como o a Taranto, nuovamente identificato, portato davanti a divise e autorità che non so riconoscere cosi come neppure il senso delle carte che vengo costretto a firmare, se poi, al mio ultimo viaggio forzato in questo Paese che si dice democratico e pacifico, mi avessero trascinato di peso da Ventimiglia su un aereo con destinazione quella stessa terra, il Sudan, dove nessuno vorrebbe tornare, se ancora altre divise cieche e sorde non avessero ascoltato le mie urla e i miei singhiozzi mentre mi trascinavano sulle scalette dell’aereo, se fossi insomma, uno di quei 48 sudanesi rimpatriati coattivamente il 24 agosto mattina, sarei infinitamente grato a tutte quelle persone, che con ruoli diversi hanno tentato in ogni modo di opporsi a questo mio viaggio di non ritorno.

Proverei riconoscenza verso quei preziosi quanto rari parlamentari che hanno manifestato il loro dissenso a questa espulsione illegittima, verso i giornalisti che hanno documentato quanto stava avvenendo tra Ventimiglia e l’aeroporto di Malpensa e poi Torino, ovvero un rimpatrio collettivo e coatto verso un paese certamente non sicuro come il Sudan (perché non bastano gli accordi bilaterali con le dittature a rendere gli Stati democratici), e  nei confronti di giuristi, associazioni ed Ong, che hanno iniziato da subito, da quando si diffondeva la notizia, a diramare comunicati palesando l’illegalità di un’espulsione posta in essere in palese violazione delle leggi interne e delle convenzioni internazionali che impongono tra l’altro di non rimandare le persone verso paesi dove rischiano di essere sottoposte a trattamenti inumani e degradati.

Ma di più, sarei oltremodo commosso nello scoprire che alcuni attivisti accorsi da diverse parte di Italia hanno tentato, frapponendo il loro corpo e mettendo a rischio la loro libertà, di impedire questo mio allontanamento forzato e illegittimo verso un paese che calpesterà i miei diritti in modi che non posso neppure provare a raccontare.

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Se sapessi che tre di loro sono saliti su una torretta all’aeroporto e si sono fatti arrestare pur di cercare di ostacolare quel mio ultimo volo, se mi dicessero che hanno affrontato l’udienza di convalida difendendo ancora una volta me e non la loro libertà, raccontando al giudice le sistematiche violazioni dei diritti che si consumano nel mio martoriato Paese, sarei scosso dalla commozione.

Ma su questo maledetto volo ancora non lo so che c’è una rete fitta e a tratti invincibile, seppure fragilissima, di persone solidali che non esitano a scegliere da che parte stare, che rischiano i loro diritti per per tentare di salvaguardare quelli di altri totalmente sconosciuti ma affatto estranei.

Se lo sapessi, forse, avrei la forza per provare a spiegare alle divise che mi stanno accanto l’errore che stanno compiendo, l’infedeltà di cui si stanno macchiando violando i principi di quella Costituzione che hanno giurato di rispettare.

E magari chissà, se guardassero i miei occhi li potrei anche convincere. Magari qualcuno potrebbe decidere di disobbedire ad un ordine manifestamente criminoso e farci scendere, noi 48 condannati al rimpatrio verso il regime che pensavamo di esserci lasciati alle spalle.

Se sapessi di quei tre sulla torre e delle altre decine intorno a loro, mi si allenterebbe forse il nodo di paura e vergogna che sento stringersi nelle viscere e penserei per loro le parole di Erri De Luca “nessuno li costringeva ad esporsi, solo il loro sentimento di giustizia che a volte fa di una persona una prua che apre il mare in due; Perché giustizia non è un codice di leggi ma un sentimento che scalda e salda le ragioni e il fiato, la dignità e la colonna vertebrale” e quel sentimento salderebbe e salverebbe anche me.


articolo precedentemente pubblicato da Repubblica - Genova


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