Ci conosciamo da una decina di anni. I lustri trascorsi senza più incontrarci hanno lasciato tracce ben visibili sulla nostra pelle, segnata più dalle preoccupazioni che dal semplice, ma mai innocuo, passaggio del tempo.
A lei le preoccupazioni non sono mai mancate, eppure è sempre bellissima. Anche oggi, che non riesce a trattenere le lacrime e un insieme di rabbia, panico e impotenza le trasfigurano i lineamenti perfetti, non rinuncia, seppure divorata dall'ansia, ad un grammo della sua dignità e della sua fierezza, che anzi, se è possibile, si rafforzano mentre mi racconta.
Lei è una madre come tante, con un figlio dall'altra parte del mare. Venuta in Italia una vita fa in cerca di pace e buona sorte per sé e per i suoi familiari, ha faticato senza permesso e senza diritti per riuscire a "mettersi in regola", trovare casa, documenti e lavoro stabili.
Quando finalmente, negli anni, aveva conquistato i requisiti inderogabili previsti dalla legge per avviare le pratiche di ricongiungimento familiare col figlio, rimasto nel frattempo a crescere e a studiare in Nigeria, veniva meno la condizione principale: la minore età del figlio.
Negli anni in cui lei sgobbava e costruiva il futuro del ragazzo, lui impunemente, in barba alle leggi sull'immigrazione, cresceva e diventava maggiorenne. Ora, dato che la nostra normativa non prevede la possibilità di attuare il ricongiungimento con prole di età superiore ai diciotto anni, svaniva definitivamente con il suo ingresso nel mondo degli adulti, la possibilità di riunirsi legalmente con la propria madre.
E cosi il figlio deve restare lì, dov'è nato, dove attentati e persecuzioni sono all'ordine del giorno, in quel paese che, secondo il quotidiano francese Le Monde, è in assoluto il più colpito dagli attacchi terroristici.
Lei non può neppure pensare — e quale madre potrebbe? — che dopo tutti i sacrifici affrontati per garantire al figlio una via di fuga sicura da quel paese martoriato e insicuro, dopo tutto il tempo e le energie spese per rendergli il futuro, se non perfetto almeno vagamente vivibile, la legge non permette a quel progetto legittimo e naturale di realizzarsi.
Ma non si dà per vinta. Chiede in giro, si informa e alcune amiche la indirizzano in un ufficio dove una ditta di "servizi e consulenza" garantisce, dietro il versamento di circa settemila euro, di fare ottenere regolari visti di ingresso ai figli maggiorenni rimasti "prigionieri" in patria.
Lei investe i risparmi di una vita, si indebita e paga, anche quando le chiedono ancora soldi in più per risolvere alcune questioni impreviste. E aspetta.
Ma quel visto non arriva né per suo figlio né per gli altri attesi da altrettante madri truffate. La ditta, dopo aver spillato soldi a un po' di genitori disperati, come nelle migliori tradizioni, semplicemente scompare e con lei l'imprenditore ideatore di questo ignobile raggiro.
E ora come raccontare di questa ennesima débacle a quel figlio che era già andato all'ambasciata italiana a depositare il passaporto nella speranza di vederselo riconsegnare con il visto per l'Italia?
Non sono cose che si possono dire al telefono. Lei torna apposta in Nigeria. Si parlano, piangono, si arrabbiano contro le leggi ottuse e contro chi specula sulla disperazione e l'affetto e si abbracciano.
Appena tornata in Italia lei chiama il figlio, come tutte le sere. Ma lui non risponde. Sarà un cugino, dopo un po' di giorni a spiegarle: il figlio è in Libia, è fuggito subito dopo averla salutata, incapace di confessarle che la sua dose di speranza, pazienza e fiducia era terminata. È nel dire la parola Libia che lei inizia a piangere.
Entrambe sappiamo cosa vuol dire. Sarà imprigionato, violato, picchiato, occorrerà pagare un riscatto e poi forse salirà su una barca, una di quelle che a volte affondano o si rovesciano o semplicemente perdono parte del loro carico di uomini in mare. "Se muore..." mi dice, e non termina la frase.
Le ho chiesto, appena dovesse avere notizia dell'approdo salvifico, di venire con lui a darmi la lieta novella. Scrivo e guardo la porta, sperando di vederli arrivare.
articolo precedentemente pubblicato da Repubblica - Genova