Questo articolo, uscito nell’2013 con il titolo “Nei CIE, in punta di dita” sul Corriere delle Migrazioni (www.corrieredellemigrazioni. it). Allora era lecito aspettarsi una definitiva rottura con un sistema di detenzione amministrativa che aveva portato solo lutti, desolazione e sofferenze, oltre che rivelarsi inutile. A maggior ragione, oggi che lo si intende riportare in voga ci pare utile rimetterlo in circolazione, perché la memoria aiuta a difendersi.
«Da queste grate non entra neppure il palmo della mano, così ci si saluta e ci si presenta toccandosi i polpastrelli…». Il racconto di Alessandra Ballerini.
Resta il contatto degli occhi e delle parole. Quasi sempre domande. Perché siamo qui? Per quanto tempo dobbiamo stare rinchiusi? Dov’è la nostra colpa e come si può far cessare la pena? E voi, uomini liberi, cosa potete fare per cambiare le leggi? Spieghiamo che uno di noi tre in visita al Cie è un parlamentare. Fa le leggi? Chiedono. Allora abolisca i Cie. Già…
Sono in Corso Brunelleschi insieme all’amico scrittore Fabio Geda e a Davide Mattiello. Un parlamentare dalle qualità rare: disponibile e competente.
Il capitano della Croce Rossa che ci accompagna, tra pozze d’acqua, piccioni e filo spinato, a incontrare i migranti rinchiusi, è loquace e gentile. Sembra più crocerossino che milite, ma è entrambe le cose, sebbene senza divisa.
mi vengono incontro in due. Sono poco più che ventenni.
Sono nate e cresciute in Italia e da qui non si sono più mosse.
Hanno casa, genitori, fratelli e una delle due anche una figlia,
in Italia. Ma non i documenti
C’è un ragazzo africano alto e magro imprigionato dietro quelle sbarre dal 19 di gennaio. È esausto. In ottimo italiano chiede di essere espulso subito. Vuole tornare nel suo Paese. Scambiare prigionia con miseria. Ma pare che il suo console non sia intenzionato a collaborare alla sua identificazione e senza passaporto non potrà essere rimpatriato. «E allora quanto dovrò stare in gabbia?». Non abbiamo cuore di rispondergli: fino a 18 mesi. La legge a volte è imbarazzante e indicibile.
Poco distante, dietro altre sbarre sono trattenute le donne, anzi le signore, come le chiama il capitano. Mi vengono incontro in due. Sono poco più che ventenni. Sono nate e cresciute in Italia e da qui non si sono più mosse. Hanno casa, genitori, fratelli e una delle due anche una figlia, in Italia. Ma non i documenti. Li avevano da piccole, li hanno persi con la maggiore età. Avrebbero diritto in un paese normale alla cittadinanza. Nel nostro sono irregolari.
Una mi dice che da quando è nata quella è la prima volta che esce da Milano, la sua città. È preoccupata soprattutto per la figlia che non vede da tre settimane, da quando l’hanno catturata per strada in seguito ad un banale ma fatale controllo di documenti. «Ha appena ricominciato la scuola, mia figlia. La rivedrò?». Mi mostrano la loro stanza, la tengono in ordine: ci sono sette letti attaccati in pochi metri quadri, fogli di giornali contro le finestre a mo’ di tenda e foto alle pareti. Stanno sedute a letto, fuori piove e non c’è altro spazio dove stare a far passare le giornate vuote e chiuse.
Una ragazza boliviana vorrebbe leggere ma non c’è luce nella stanza. L’interruttore si trova negli uffici esterni e il suo utilizzo può essere governato solo dall’ente gestore. La privazione della libertà si traduce qui, ancora più che in carcere, in qualunque forma di controllo e di potere. Chiedo come si fa a farsi accendere la luce, a chi bisogna chiedere: mi spiegano che come prima cosa devono riuscire ad attirare l’attenzione di un militare posto di guardia fuori dalla rete e poi implorare un contatto con la Croce Rossa. Ma il milite è svogliato, distratto dal cellulare e non le degna di ascolto.
E così si rinuncia a leggere.
penso a voce alta che quando non soffriremo più
vedendo migranti rinchiusi, allora forse sarà arrivato
il momento di smettere di occuparsi di diritti umani
Una bellissima ragazza orientale mi sussurra: «Da noi, in Cina, i militari si mettono sull’attenti se ti rivolgi a loro. Dovremmo mandare questo a imparare lì…». Il capitano intanto interviene e la luce, per potere e non per magia, appare.
Un’altra ragazza si lamenta della scarsità di acqua calda: se sei tra le ultime ad accedere al bagno, mi confida, meglio rinunciare a lavarsi.
Così, una rinuncia dopo l’altra, non resta quasi più nulla.
Solo paure, sofferenza e un po’ di rabbia.
Queste restano attaccate anche a noi, anche oltre le grate, insieme ad una avvilita indignazione.
Finalmente fuori, al telefono, scambio impressioni con gli altri amici della campagna LasciateciEntrare. Sembri turbata, si preoccupano. Penso a voce alta che quando non soffriremo più vedendo migranti rinchiusi, allora forse sarà arrivato il momento di smettere di occuparsi di diritti umani. Stefania mi rincuora: quando non ci indigneremo più magari vorrà dire che i Cie saranno stati finalmente chiusi.
Magari… Solo l’idea di un’Italia senza Cie mi regala una vertigine di speranza.
articolo precedentemente pubblicato da Associazione Diritti e Frontiere - ADIF