Lui si commuove mentre mi parla della guerra. Anzi delle guerre. Quella sua privata e personalissima, combattuta in silenzio ed eroicamente in due tempi: prima contro la malattia degenerativa e implacabile che gli ha consumato la moglie fino ad annientarla e poi contro il vuoto del lutto, il panico da perdita che ti spezza fiato e vita.
E poi c’è l’altra Guerra. Quella famosa e collettiva (ma sembra non riguardarci) che sta devastando la sua terra e la sua gente.
Mentre inizia a parlarmene si asciuga gli occhi e si raddrizza istintivamente con la schiena sulla sedia come a conferire all’argomento una sorta di ufficialità. Non mi sta più parlando solo di sè, del suo dramma familiare, ma di una tragedia che coinvolge centinaia di migliaia di persone da anni.
Sebbene lui sia da tempo divenuto cittadino italiano, gran parte della sua famiglia di origine, i suoi vecchi amici, sono ancora in Siria o dispersi nei paesi vicini, per questo quella Guerra è anche sua e per questo, con un gruppo di amici italiani, raccoglie fondi per acquistare protesi ai mutilati e cerca come può di aiutare chi è rimasto intrappolato in Siria.
non chiede, e non crede forse più,
ad una soluzione, ma vuole condividere con me,
sua antica conoscente, le sue paure
Mi parla della Guerra, quella grande, quella che in sei anni ha causato la morte di almeno trecentomila sfollati e costretto alla fuga undici milioni di individui tra i quali tantissimi bambini e quasi si vergona a confessarmi una sua ansia personale: non ha più notizie dei fratelli.
Uno si era rifugiato in Libano, l’altro era rimasto ad Aleppo. Non chiede, e non crede forse più, ad una soluzione, ma vuole condividere con me, sua antica conoscente, le sue paure.
Lo guardo muta, poi, per deformazione professionale e caratteriale, non resisto alla tentazione di scovare qualche barlume di speranza. Gli spiego che siamo in contatto con diverse organizzazioni non governative che operano in Siria e in Libano e che magari se diffondiamo i dati dei fratelli possiamo provare a recuperare qualche notizia.
Lui scuote la testa per nulla contagiato dal mio stentato ottimismo: “ma se anche li trovo come potrei offrirgli salvezza? Come potrei farmi raggiungere e condividere con loro la mia pace?”
Non sopporto tanta disperazione e allora implacabile rilancio, prendendo spunto da una notizia letta la notte prima.
Gli racconto che un italiano, Paolo Mengozzi, avvocato generale alla Corte di Giustizia, chiamato a dare un parere su un caso di una famiglia siriana che aveva chiesto un visto d’ingresso per motivi umanitari all’ambasciata Belga in Libano, per raggiungere in maniera sicura e legale l’Europa, senza rischiare la vita nelle prigioni libiche o su un barcone, si era appena espresso favorevolmente ricordando ai magistrati che la Carta dei diritti fondamentali impone agli Stati membri di impedire che le persone subiscano trattamenti inumani e degradanti.
dopo poche ore si diffonde la terribile notizia:
la Corte ha deciso di non ascoltare l’avvocato italiano
Lui si illumina: quindi se trovo i miei fratelli forse posso farli venire in Europa senza che rischino di annegare in mare? Senza doversi affidare a trafficanti di uomini. farsi imprigionare e torturare, senza doversi nascondere come criminali? Potrebbero viaggiare sicuri e fieri su un volo di linea, peraltro molto meno costoso della tariffa imposta dagli scafisti?
Si, forse. Ma dobbiamo aspettare la decisione della Corte. Esce dal mio studio un po’ meno curvo di come era entrato e io mi sento incautamente fiera.
Dopo poche ore, sulle agenzie ma soprattutto sui social network già si diffonde la terribile notizia: la Corte ha deciso di non ascoltare l’avvocato italiano.
Eppure Mengozzi era stato esplicito: “indignarsi è lodevole e salutare. Nella presente causa la Corte ha tuttavia l’occasione di spingersi oltre consacrando la via legale di accesso alla protezione internazionale. Non è perché lo detta l’emozione ma perché lo comanda il diritto dell’unione”.
Ora come potrò spiegare a quest’uomo gentile e triste che si è persa quell’occasione e si è deciso di disobbedire al diritto e di privare lui, e tutti noi che nel diritto crediamo, della speranza?
articolo precedentemente pubblicato da Repubblica