“Volevo ringraziare gli italiani che mi hanno salvato la vita in mare. Chi ti salva ti ama”. “Volevo ringraziare perché quando ero in mare avevo dubbio che qualcuno mi potesse salvare. Io non posso dimenticare e devo ringraziare”.
E ancora: “Ringrazio quelli che ci hanno salvato, mi auguro che questo paese diventi il più sviluppato del mondo, qui ho trovato la pace. Non posso ripagare…”
Queste sono alcune risposte dei richiedenti asilo all’ultima domanda: “vuole aggiungere qualcosa?” posta alla fine dell’audizione davanti alla commissione territoriale di Genova per il riconoscimento della protezione internazionale.
È l’ultima domanda, l’ultima risposta, l’ultima chance per convincere i commissari circa il loro diritto a restare in Italia. I profughi intervistati dovrebbero concentrarsi e fornire altri dettagli sulle persecuzioni e violenze che hanno subito, cercare di essere convincenti e credibili, recuperare dalla loro memoria e dalle cicatrici che il corpo ostinatamente conserva, prove della loro sincerità e del loro indicibile quanto indubitabile patire.
Potrebbero insistere sulla loro condizione di vulnerabilità e promettere, documentandola, la loro volontà di inserimento. E invece, ingenuamente, scelgono di non parlare più della loro storia ma di spendere questa irripetibile manciata di secondi per ringraziare chi ha salvato loro la vita in mare.
Non sanno che bandiera battesse l’imbarcazione che li ha soccorsi, non rammentano il porto di approdo, ma hanno ancora ben impresso nel fondo degli occhi il sollievo, se non la gioia, di quell’insperato ed estremo salvataggio. Si ricordano l’apparizione delle luci, le urla di esultanza e richiamo, rammentano fino a risentirla la presa delle braccia sconosciute che li ha sottratti alle onde, ritrovano il calore della coperta appoggiata sulle spalle e del sorriso che li accoglie su una nave salvifica vera e salda, cosi diversa dai canotti dove sono stati stipati a forza sulle spiagge libiche.
Ringraziare è un bisogno urgente, non più rimandabile. Appena soccorsi non trovavano parole. Le ossa scosse dal freddo e dall’angoscia, la pelle lacerata da ferite e ustionata dal gasolio e dal sale, gli occhi frenetici, in cerca di tracce di sopravvivenza dei compagni di viaggio. La bocca restava vuota di parole e vorace di acqua che non fosse salata, i singhiozzi impedivano respiro e dialogo.
Ma ora, per pochi secondi ancora, stanno seduti di fronte a qualcuno che dovrebbe ascoltarli, una “autorità” che addirittura mette a verbale ogni loro frase. È un’occasione irripetibile: pronunciare quel GRAZIE e farlo mettere per iscritto, cosicché magari i soccorritori possano leggerlo e sappiano che di tutto quell’interminabile viaggio, fatto di deserti, prigionie, violenze, abusi, perdite e paura, le loro mani, i loro salvagenti, i loro sguardi rassicuranti, la loro presa in salvo, è l’ultima e l’unica cosa che potrà essere ricordata e raccontata anche a se stessi.
Grazie, non solo per il salvataggio ma per la restituzione. Hanno sottratto quei corpi alla morte e hanno ridato alle loro anime calpestate e oltraggiate, in ogni modo e oltre ogni misura, fiducia negli esseri umani.
Ho pensato che sono molto fortunata a conoscere entrambi: salvati e salvatori. Per professione incontro molti profughi, per amicizia sono profondamente legata ad alcune delle persone che operano in varie forme soccorso in mare.
Oggi, in questo mondo alla rovescia dove salvare vite è diventata una colpa se non un reato (ma per il codice della navigazione e le convenzioni del mare resta un dovere inderogabile!) per chi continua a compiere la scelta coraggiosa e impopolare di soccorso senza se e senza ma (e dunque senza i limiti imposti dal cosiddetto codice Minniti che vieta il necessario trasbordo dei naufraghi e impone la presenza, pericolosa in sé, di divise armate a bordo di navi che per missione devono essere neutrali) quel grazie ha il sapore di una ricompensa, di un risarcimento rispetto al fango vomitato addosso da imprenditori dell’odio e della disumanità.
E così, quando posso, riporto ai miei preziosi amici-salvagente, questi incontenibili moti di gratitudine, perché questi uomini e donne che salvano vite in mare, sono la parte migliore di noi.
articolo precedentemente pubblicato da Repubblica