È una gioia rara. Specie per chi si occupa, spesso impotente, di diritti umani, o meglio, delle loro violazioni, assistere all’esplosione di qualcosa che assomiglia alla felicità e che è, decisamente, sollievo.
Credo che sia una sensazione simile a quella che può provare chi assiste, in una sala di attesa di ospedale, alla notizia comunicata dal chirurgo ai familiari che il paziente, arrivato in condizioni drammatiche, dopo un intervento difficile, è miracolosamente vivo.
Il medico non può cancellare la malattia o l’incidente e neppure la sofferenza e gli esiti, ma ha salvato la vita. I parenti lo sanno, conoscono il dolore e lo strazio a monte di quell’intervento salvifico ed intuiscono la fatica e la sofferenza che ancora li attende a valle, ma non possono che esultare di sollievo per quell’affetto strappato alla morte.
Ecco mi è capitata, senza meriti se non quelli di vestire i panni di un’occasionale messaggera, la fortuna di trovarmi in una situazione simile e di poter dare ad un fratello l’insperata notizia: una rete di straordinari salvatori aveva appena restituito ai suoi cari la possibilità di vivere, e vivere in pace.
Lui aveva già perso, una dopo l’altra, ogni speranza. E ora incredulo esulta. L’ultima volta che, incautamente, avevo tentato di trasmettergli fiducia lo avevo costretto a sopportare un’altra delusione.
Le avevamo tentate tutte per trovare una via di fuga sicura e legale alla sua famiglia prigioniera della guerra in Siria. Lui ormai quel fratello malato di cuore e la sorella data per dispersa ad Aleppo disperava non solo di metterli in salvo ma pure di rintracciarl.
Lui, in Italia da ben prima che scoppiasse la guerra nel suo Paese, è divenuto da anni cittadino italiano e aveva dovuto fare i conti con l’insensata crudeltà delle nostre leggi che non permettono a chi fugge dai bombardamenti, neppure se ha parenti dall’altra parte del mare in grado di ospitarli e mantenerli, di entrare nella fortezza Europa senza affidarsi ai trafficanti e rischiare la vita tra le onde.
Impotente e disilluso, insieme ad un gruppo di amici, organizza spedizioni di aiuti umanitari per tenere vivo il legame con la sua terra devastata ed i suoi cari e lenire il senso di colpa di non poter condividere con loro la sua pace italiana.
Gli avevo imprudentemente raccontato, non sopportando tanta disperazione, che l’avvocato generale alla Corte di Giustizia, chiamato a dare un parere sulla possibilità di rilasciare visti di ingresso per chi scappa dalla guerra si era appena espresso favorevolmente ricordando ai magistrati:
“Indignarsi è lodevole e salutare. Nella presente causa la Corte ha tuttavia l’occasione di spingersi oltre consacrando la via legale di accesso alla protezione internazionale. Non è perché lo detta l’emozione ma perché lo comanda il diritto dell’unione”.
Ma la Corte, implacabile e sorda, aveva poi negato questa possibilità privandoci di ogni residua speranza.
Noi, intanto, in attesa della decisione, fidandoci più degli uomini che delle leggi, avevamo scritto e preso contatto con Mediterranean Hope che, insieme con la comunità di Sant’ Egidio e le Chiese Evangeliche organizzano per una quota di persone in fuga dalle guerre i “corridoi umanitari” ovvero gli ingressi legali e sicuri in Italia, dimostrando a legislatori e giudici quello che si può e si deve fare: evitare ai richiedenti asilo di finire vittime di trafficanti, di subire ulteriori violenze in Libia e di rischiare su un barcone quella vita che secondo alcuni magistrati è pure reato salvare.
Lui piange di gioia quando gli dico che questi sconosciuti salvatori hanno rintracciato il fratello e la sorella che a giorni arriveranno in tutta sicurezza in Italia.
Che Dio li benedica, continua a ripetere. La stessa benedizione che rivolgono i profughi salvati in mare ai loro soccorritori, perché Dio sappia anche il bene che alcuni uomini sono capaci di compiere sfidando leggi ingiuste, accordi criminali e gogne mediatico-giudiziarie.
articolo precedentemente pubblicato da Repubblica