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Lui ha un nome da filosofo e scrive interminabili lettere. E sorride. Oggi poi, come direbbe una mia amica, meno male che ha le orecchie ad arginare il moto felice delle labbra, altrimenti il sorriso circumnavigherebbe il suo volto solare e riccioluto.

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Le sue lettere così dettagliate da sembrare dei rapporti, oltre ad una serie di altre circostanze sono state indispensabili per fargli riguadagnare quel posto per dormire al coperto così faticosamente conquistato e del quale era stato ingiustamente privato.

Questo sorridente grafomane africano infatti ha una caratteristica che può renderlo, per chi non fa dell’uguaglianza e dell’onestà dei dogmi, decisamente detestabile: non sopporta le ingiustizie e non sa tacere quando le vede compiere.

Nel centro di accoglienza dove è stato collocato, dopo essere approdato sulle nostre coste, di ingiustizie ne ha viste un bel po’.

E non si dava pace. Lui che era già stato testimone e vittima, nel suo paese di origine e in Libia, di ogni forma di violenza ed iniquità, pensava, una volta approdato nella democratica Europa e nell’accogliente Italia, di non dover più subire o assistere ad altri soprusi.

E così, confidando che qualche autorità sarebbe intervenuta a riparare i torti dei quali era spettatore ed avendo ben presto verificato che qualsiasi forma di dialogo con i gestori del centro era inutile se non controproducente, scriveva.

La sua evidente simpatia gli aveva procurato dei buoni amici fuori dal centro e grazie a loro si era informato su quelli che già intuiva essere i diritti dei richiedenti asilo e su chi avrebbe dovuto vigilare sulla loro inviolabilità.

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Scriveva senza sosta: ai carabinieri, alla prefettura, agli amici, ma intanto iniziavano a mancargli le forze.

Il cibo che gli veniva somministrato era così scarso e scadente che si ammalava e finiva ricoverato in ospedale. Anche da lì ha continuato a denunciare le condizioni in cui lui e gli altri profughi erano costretti a vivere.

Ovviamente l’eco di questa silenziosa ma persistente protesta giungeva alle orecchie del direttore del campo.

La reazione arrabbiata e scorretta non si è fatta attendere: il profugo grafomane e paladino della giustizia è stato accusato di non rispettare le regole del centro ( forse digiunare e tacere) e quindi cacciato da quella seppure inospitale unica dimora.

Faceva ancora freddo sulle alture del ponente ligure ma senza nessuna remora il filosofo africano veniva messo alla porta e buttato per strada.

Oggi ride e gli lacrimano gli occhi. Un giudice ha letto le sue lettere, i suoi certificati medici e i nostri atti difensivi e gli ha dato ragione ristabilendo il suo diritto ad una accoglienza, vera.

Come quella che offrono quasi tutte le strutture genovesi dove educatori esperti e sensibili si trovano a battersi, anche loro a colpi di lettere, perché i loro ospiti non siano sopraffatti da una burocrazia ottusa e sbrigativa.

Capita infatti che vengano notificati provvedimenti di revoca dell’accoglienza a ragazzini poco più che maggiorenni, comunque vulnerabili e sofferenti a causa delle violenze subite in Libia, per “ punirli” di aver violato qualche regola.

Spesso si tratta di mere incomprensioni o di banali disguidi: un ritardo nel rientro in struttura, manco ci fosse il coprifuoco, il fermo da parte di polizia o vigili o altri intoppi) ma certamente nessuna “trasgressione” così grave da essere punita con la privazione di un bene primario, come lo è un giaciglio per la notte, per chi la “ casa” l’ha già persa da un pezzo.

Come se la vera sicurezza si costruisse costringendo i richiedenti asilo a dormire in strada e a vivere di espedienti, multandoli poi se chiedono l’elemosina o rovistano poco elegantemente nella spazzatura, anziché, come dovrebbe essere intuitivo, tutelandone i diritti inviolabili.



articolo precedentemente pubblicato da Repubblica


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