Le parole fanno le cose” dice Foucault. E a volte fanno anche le persone. In tema di migrazioni quanti vocaboli, spesso dispregiativi, vengono utilizzati, a volte senza una reale consapevolezza, per indicare intere categorie di individui!
Ad esempio, quando si parla degli arrivi dei profughi sulle nostre coste si adopera quasi sempre il termine “ invasione”, anche se, come quest’anno, ci si riferisce a neppure 10 mila persone.
Chi arriva via mare, in fuga da violenze e mali indicibili, secondo il gergo comune, “sbarca” da “carrette del mare” sovraffollate di “ disperati”.
A Lampedusa i miei amici mi hanno insegnato che le persone, a differenza degli eserciti, non sbarcano ma approdano. E lo fanno per lo più, non da “carrette”, ma, se tutto è andato bene, dagli scafi delle grandi navi ( che qualcuno chiama “ taxi del mare”) della guardia costiera o delle Ong (almeno di quelle che ancora non sono state sequestrate da qualche magistrato che confonde il dovere di soccorso in mare con un reato).
E non sono “disperati” ma portatori di un’irriducibile speranza. Almeno i vivi. Chi non ce la fa, chi approda privo di vita a causa delle atrocità e delle privazioni subite in Libia e nella traversata in mare, viene impietosamente liquidato, nei bollettini delle prefetture, come “elemento” o, peggio ancora, come P.M., profugo morto.
I vivi poi vengono smistati. Chi ha contratto la scabbia nei campi di prigionia libici, finisce rinchiuso nella zona predisposta per gli “ scabbiati”, mentre la polizia tenta, secondo criteri a dir poco oscuri, di separare i potenziali richiedenti asilo dai “migranti economici”.
Con questa ultima definizione si vorrebbero indicare, non già, come verrebbe da pensare, i migranti parsimoniosi, ma quelli che sono fuggiti dal proprio Paese, rischiando la vita in Libia e nel mare “solo” per fuggire da una povertà endemica ed estrema, vale a dire solo per poter vedere garantito il diritto inviolabile alla vita.
I migranti economici potrebbero essere espulsi, o meglio “respinti”, utilizzando un’altra delle parole care alla nostra violenta burocrazia.
Respinti, cacciati via, rimandati nell’inferno dal quale erano faticosamente riusciti a scappare. Senza tante cerimonie: con i lacci ai polsi, ordini urlati, la scaletta di un aereo salita a forza, divise come compagni di un viaggio di non ritorno.
I più fortunati, quelli che riescono a chiedere protezione internazionale, sono, per l’appunto, “richiedenti”. Come fossero questuanti, mendicanti di un diritto che dovrebbe invece essere inviolabile e sacro.
Se la domanda di protezione viene rigettata, perché la loro storia viene giudicata “inverosimile” (ma si tratta oggettivamente di storie, per l’appunto, “ dell’altro mondo”), quelle stesse persone diventano, in virtù di un foglio di carta, “diniegati” o “rifiutati”. Ed è quasi grottesco che una sola lettera faccia la differenza tra l’inferno dell’essere “rifiutato” e il paradiso di essere riconosciuto”rifugiato”.
“Mi hanno rifiutato” ti dicono quando si presentano affranti e increduli in studio chiedendoti aiuto per fare valere le proprie ragioni davanti ad un giudice che si spera più attento della commissione.
Non appena si inizia l’iter processuale si diventa “ricorrenti”. E dato che la maggior parte dei richiedenti asilo vede in prima istanza rifiutata la propria domanda, diventare ricorrenti è fatto, in effetti, piuttosto ricorrente.
Se la domanda viene rigettata in tutti i gradi di giudizio si è condannati a diventare irregolari. Anzi, come molti amano dire con una parola che andrebbe abolita da qualsiasi dizionario, almeno se riferita ad esseri umani e non a corse di cavalli: “clandestini”.
Le parole fanno le cose. Impariamo a chiamare le persone “persone” indipendentemente dalla (cattiva) sorte che è toccata loro in dote. Perché le parole che noi pronunciamo “fanno” anche noi.
articolo precedentemente pubblicato da Repubblica