Provateci voi. Dopo un boato, un fragore di sangue, con ancora il bagliore della lama tra occhi e pelle. Il nemico alle spalle o alle porte. Mentre la terra trema o la tempesta si abbatte sulla tua casa.
Provateci voi a strappare via dalla distruzione, dalle bombe, dal fuoco, dalla furia del cielo e degli uomini, i vostri figli, i documenti, gli averi più preziosi e i beni di prima necessità, in una manciata di secondi, mentre la testa sembra scoppiarti di terrore.
E poi provate a scappare, con il fratellino per mano o disperatamente soli, con la sacca sulle spalle, a correre più veloce dei proiettili, degli aguzzini, della paura, del dolore.
Prova a stiparti su un camion che non ci si crede che saresti riuscita a farti cosi piccola, con le ginocchia in bocca e i gomiti tra le costole, senza più distinguere il tuo corpo da quello degli altri disperati compagni di viaggio.
Prova a vederli cadere senza poterli afferrare o soccorrere.
Provate voi a detestare il vostro corpo che cede, si spezza, sbava, si scuote di dolore, fame e febbre. Il vostro corpo così esigente, fragile, disobbediente e sporco. Il vostro corpo ormai decomposto che pure attira. Provate a odiare il vostro sesso, a desiderare di non avere varchi, provate a chiudervi per non concedere ingressi al vostro aggressore. Provate a resistere. E poi a cedere. E provate a dirmi cosa fa più male.
Provate il tradimento, l’umiliazione, il disgusto, per questo corpo che ancora, ottuso, meschinamente resiste.
Provate i deserti, la prigione, la tortura. La plastica sciolta sulla schiena, le sigarette spente su mani e braccia, le bastonate sotto le piante dei piedi, le frustate con cinghie o tubi di plastica. Ditemi: quanto resistereste appesi per le braccia, quanto potete stare senza bere immobilizzati sotto il sole. Qual è il livello di dolore che siete in grado di sopportare?
Moltiplicatelo. E mille volte ancora.
Vi piace il mare? Provate di notte a distinguerlo dal nero del cielo, provate a sopportarne il rumore dopo 36 ore di traversata, incastrati tra decine di altri corpi, con il gasolio che ustiona la pelle, da bere solo acqua salata. E magari non sai neppure nuotare. E urli, preghi, ma il mare grida più forte. Così forte che anche sulla terraferma continuerai a sentirlo, pure se ti tappi le orecchie e ti batti le mani sulle tempie.
Non uscirà più dalla tua testa, il mare.
Prova a sbarcare. Trascinato da divise in guanti di lattice e mascherine sulla bocca.
Di nuovo rinchiuso, ordini urlati, moduli da firmare, paura, disagio e rassegnazione fino a qualcosa che assomigli finalmente alla libertà se non alla vita. Prova e essere messo in fila, un numero sul polso, contato, spostato, ispezionato, come fossi una cosa, un fastidio.
Prova le code nel campo di accoglienza e in questura, prova a dover mostrare, ogni volta a sconosciuti, ogni volta diversi, le tue ferite, prova a raccontare l’indicibile. Prova a rispondere sempre alle stesse domande senza che mai a nessuno degli interlocutori importi nulla di te.
Provate a sentire su di voi sempre il sospetto, e talvolta, se avete migliore fortuna, la pena. Mai il rispetto.
Prova alla fine a sentirti dire che "non sei credibile" che la tua storia "è inverosimile e romanzata" che non sei stato abbastanza preciso con le date o i nomi di strade e fiumi, persi per sempre nella tua memoria. Prova a sentirti dire che tutto il tuo dolore non è convincente, prova a sentirti dare del bugiardo, del profittatore. Prova a doverti vergognare della tua sopravvivenza.
Prova a ricevere il "rifiuto" di qualsiasi forma di protezione. Prova a essere un rifiuto. Scartato, schifato, scacciato. Sconfitto.
Prova di nuovo ad avere paura, fame, freddo, angoscia. Prova a doverti ancora nascondere, a dover scappare dalla polizia e dall’odio. Senza trovare rifugio né pace.
Prova a non farcela più, a pregare solo di morire e tentare invece ancora di vivere.
Provaci tu, E poi dimmi se la chiameresti pacchia.
articolo precedentemente pubblicato da Repubblica