Non basta la barriera trasparente di plexiglass (o plexiglas che dir si voglia) e neppure la mascherina chirurgica a proteggerci. Lui non riesce a guardarmi negli occhi (seppure gli occhi siano l’unica parte del viso che entrambi abbiamo scoperta), fissa un punto tra me e la gamba del tavolo.
Lui non mi guarda, ma io non riesco a scostare il mio sguardo dai suoi occhi abbassati. Non per sfida, per costringerlo in qualche modo a ricambiarmi gli occhi, ma per istintiva attrazione. La chiusura dolente di questo ragazzo è uno strazio percepibile a distanza, tracima da quegli occhi ostinatamente distanti, gonfi di vergogna, paura e orrore.
Ripenso a tutte le indicazioni (a volte contraddittorie) fornite nei corsi di formazione sulla migliore strategia psicologica per entrare in relazione con persone così palesemente traumatizzate. Mi sovviene che in una lezione una relatrice consigliava di lanciare oggetti, possibilmente non pesanti e non acuminati, contro l’interlocutore assente per fargli riprendere contatto con la realtà.
Guardo istintivamente il posacenere di quarzo rosa (dall’incalcolabile peso specifico) e la pinzatrice di fronte a me, ma scarto con disappunto l’idea.
I miei amici che si occupano di gestione del dolore e che conoscono la mia refrattarietà a regole rigide specie in situazioni difficilmente codificabili, mi confortano sostenendo che siamo capaci di una relazione empatica (non infallibile ma almeno non fatale) se stiamo in ascolto con franchezza e senza giudizio.
Certo, aver accolto questo ragazzo costringendolo a disinfettarsi da capo a piedi e prendendogli la temperatura, non ha aiutato il flusso di fiducia e empatia.
Allora, per dimostragli che queste misure non sono determinate da qualche forma di discriminazione mi misuro la temperatura pure io (che risulta essere molto più alta della sua e questo non lo conforta affatto) Provo anche a scostare di lato la barriera trasparente ma lui non si scompone e non alza di un millimetro lo sguardo.
Gli sguardi bassi di un uomo di altre tradizioni al cospetto di una donna (seppure mascherata) può essere segno di rispetto, ma i miei assistiti dopo un po’ che parliamo delle loro esistenze tragiche prima o poi uno scambio di sguardi me lo concedono, come a suggellare il nostro patto di fiducia.
Lui no, resiste alla tentazione di dare un’occhiata alla faccia della persona che gli sta facendo tutte quelle domande su quel passato che lo divora. A volte sento questa resistenza come ostile, ma nel suo caso no. Nel suo caso è legittima difesa.
Il dolore compresso riempie la stanza. Non so se pesano di più le violenze sessuali subite in patria, i 18 mesi di carcere in Libia, le torture non raccontabili (mi mostra il suo pollice sinistro amputato in risposta al mio "ti hanno fatto del male?") o il bullismo e l’abbandono di cui è stato vittima nel primo centro di cosiddetta accoglienza italiana.
Forse è la somma di tutti questi faticosi orrori a rendergli insopportabile la vista di uno sguardo che potrebbe ancora ferirlo o giudicarlo.
Un medico fuggito da quella dittatura che lo aveva imprigionato e violato mi aveva spiegato che le persone sopravvissute alla tortura restano irrimediabilmente danneggiate, o peggio, rotte.
Sarah Hijazi l’attivista egiziana imprigionata, torturata e violentata, finalmente libera e in esilio in Canada, scrive prima di togliersi la vita: "ho provato a sopravvivere e ho fallito,. L’esperienza è stata dura..Ho tentato di trovare riscatto e non ci sono riuscita.. sei stato crudelissimo mondo ma io ti perdono".
articolo precedentemente pubblicato da Repubblica