Esco ora dalla psicologa, devo andare a riprendere mio figlio, anche lui avrà finito la sua ora di terapia e mi starà aspettando nella sala d’attesa. A quest’ora il centro si anima di gente, succede sempre così, è il cambio d’ora, i bambini che hanno terminato i loro trattamenti vanno via lasciando il posto a quelli dell’ora successiva, le terapiste scappano nel loro stanzino per un caffè, due chiacchiere, una sigaretta, nei corridoi si crea confusione, ma io mi sento frastornata per altro.
Nella testa risuona ancora l’eco della domanda della psicologa: “…lei quando ha incontrato la violenza per la prima volta?...”
Che cosa vuol dire? Nella mia vita è sempre stato così; se vado indietro con la memoria, i ricordi, anche i più lontani, hanno tutti lo stesso sfondo, le sfuriate incontrollate di mio padre, i suoi sfoghi sugli animali quando non poteva farlo su di noi, il terrore di quel coltello sempre presente, pronto a scattare alla minima infrazione di una delle sue regole imprevedibili, l’odore penetrante del letame che ci versava addosso se non finivamo in tempo le mansioni che ci assegnava… è stato così sempre.
Qualche tempo fa, ascoltando alla tv un caso di cronaca di una bambina violentata e poi volata giù dal palazzo, mi è venuto in mente un ricordo, più che altro sensazioni, dovevo essere molto piccola, 3-4 anni, sento il calore di qualcosa di liquido che scende lungo la schiena, nelle orecchie il rumore del vento che mi passa attraverso e che ancora oggi mi disorienta. Solo dopo molto tempo, mettendo insieme a fatica le immagini, l’orribile verità ha preso forma ai miei occhi: mio padre mi aveva sospeso nel vuoto minacciandomi di lasciarmi cadere se avessi rivelato quello che mi aveva appena fatto.
Crescendo, le cose non sono migliorate, la violenza ha continuato a seguirmi come una compagna fedele che offre con devozione i suoi servigi. Non era solo da mio padre che mi dovevo difendere, c’erano i palpeggiamenti insistenti di mio zio, le molestie fastidiose di un vicino, chiunque sembrava in diritto di prendersi delle libertà con me.
La solitudine e la disperazione che mi assalivano mi spinsero tra le braccia di mio fratello che mi accolse senza remore, suggellando un legame malato e morboso che mi fece perdere ogni senso del limite. Oramai vivevo in un clima dove la promiscuità era ammessa a tutti i livelli: padri e figlia, zio e nipote, fratello e sorella ed io non riuscivo ad oppormi.
Ancora una volta mi venne incontro la violenza che mi suggerì una soluzione: se mi fossi uccisa tutto sarebbe finito.
Tentai il suicidio a 19 anni, ma non vi riuscii, non ero capace neanche di ammazzarmi.
Dovevo fare qualcosa per provare a sfuggire all’orrore della mia famiglia. Volevo una vita normale, sposarmi, avere una famiglia, lavorare, di fatto ho fallito su tutti i fronti!
Il primo ragazzo amava praticare il sadomaso, come se non ne avessi avuto abbastanza di esperienze estreme!
Il secondo era affezionato alla droga più che a me al punto che si accorgeva di me solo quando bisognava portarlo in ospedale. All’ennesima overdose sono riuscita a mollarlo!
L’ultimo, è stato il mio capolavoro! Nei primi tempi era bello, lui, dolce e premuroso, mi teneva per mano, sembrava perfetto, ma in fondo, all’inizio lo sembrano tutti. Poi la lenta discesa verso l’inferno, 10 anni di umiliazioni, tradimenti, soprusi che avrei anche continuato a subire se non fosse stata per quella frase: “Mi sono messo con te perché non ho trovato di meglio”. Allora ho detto basta e l’ho lasciato. Ma lui no! Non si è rassegnato e sono cominciati i pedinamenti, gli appostamenti fuori scuola, gli interrogatori al bambino sui miei spostamenti e frequentazioni, le minacce a quanti si avvicinavano, l’inferno continuava.
Per fortuna una denuncia e un’ingiunzione del Tribunale lo hanno convinto a tenersi lontano ed oggi, finalmente ho un po’ di pace.
A parte la delusione e l’amarezza, questa storia ha lasciato un segno ben più importante, nostro figlio Raffaele, la mia gioia più grande, ma anche la mia più grande preoccupazione.
Spesso, guardandolo, mi chiedo se sarà lui l’erede del cospicuo patrimonio di violenza accumulato negli anni, se anche lui sarà risucchiato dai gorghi impetuosi di quella furia che apparteneva a mio padre ma che talvolta sembra impossessarsi anche di me. Temo questo più di ogni altra cosa e spero che la terapia mi aiuti a tenere a bada il mostro di rabbia, odio e rancore che alberga in me da tutta una vita.
[continua]
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Autrice
Maria Rosaria Compagnone
Di Napoli. Psicologa-psicoterapeuta, lavora presso un centro di riabilitazione e si occupa da diversi anni di problematiche legate all'abuso e maltrattamento.
Elaborato finale del Master
Il trattamento multiprofessionale di bambini e adolescenti vittime di violenza
I Edizione Gennaio 2017- Dicembre 2018
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