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Si inizia spesso con una battuta, che in genere però è un colpo basso. Poi un altro scherzo, un altro colpo. Dopo può accadere che la manifestazione di bullismo si aggravi, oppure che rimanga a “bassa intensità”, a malapena riconoscibile, se non per la vittima. Qualcuno dice qualcosa per fermare la situazione? La situazione continua a mantenersi sottotraccia o diventa esplosiva?

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E poi, cosa accade se sono proprio i tuoi amici che stanno facendo del bullismo? Chi allora denuncerà quello che sta capitando?

Quando si tratta di bullismo, la maggior parte della letteratura esistente che riguarda le modalità di intervento, ha esaminato il ruolo di quelli che se ne rimangono a guardare, persone che non sono direttamente coinvolte nei fatti di bullismo. Ma l'intervento da parte dei membri del gruppo dei pari dell'aggressore o della vittima, può essere davvero la risorsa più efficace per contrastare comportamenti aggressivo o ostili.

Solo che non è una cosa così semplice, in particolare se si sta parlando di adolescenti, la cui ricerca di autonomia può entrare in diretto conflitto con il desiderio di appartenenza.

"Si dovrebbe avere maggiore successo nel chiedere ai propri amici di cambiare atteggiamento piuttosto che nel chiederlo a qualcuno con cui non si ha rapporti" dice Kelly Lynn Mulvey, professore associato di Scienze della Formazione della University of South Carolina. "Ma è anche più rischioso, perché si sta davvero mettendo in pericolo la propria posizione all’interno del gruppo dei pari, quando se ne critica il comportamento".


se fai parte di un gruppo di pari con un sacco di ragazzi aggressivi,
sei più propenso a dire:  'Ok, è tutto a posto'
e a lasciar correre, oppure a vendicarti?


La professoressa Mulvey dedica la maggior parte della sua ricerca alla comprensione dei fattori che contribuiscono a sostenere la volontà di un adolescente nello sfidare le norme del gruppo dei pari. La sua ricerca più aggiornata ha preso in esame gli stereotipi di genere, le battute basate sulla razza, la percezione della discriminazione e di altri aspetti dell’esclusione sociale, e le dinamiche di gruppo.

La professoressa Mulvey e un team di colleghi del College of Education, ha ora intrapreso uno studio su larga scala dei rapporti tra le dinamiche di gruppo dei pari e l’intervento da parte dei singoli studenti all'interno di tali gruppi.

Lo studio prenderà in esame studenti delle medie e dei primi anni delle superiori.

"Se fai parte di un gruppo di pari che ha un sacco di ragazzi aggressivi, sei più propenso a dire:  'Ok, è tutto a posto' e a lasciar correre, oppure a vendicarti?" chiede la professoressa Mulvey.

Il team di ricerca cercherà di determinare quali siano le norme esistenti all’interno del gruppo dei pari. Gli studenti partecipanti diranno chi sono i bulli e le vittime nella loro classe, così come chi siano i leader della classe, e questi ragazzi saranno inseriti nei modelli che mappano anche le risposte comportamentali e il bullismo tra pari.

"Saremo in grado di ricostruire le gerarchie all’interno del gruppo dei pari, di mappare le loro reti sociali e collegare questo al loro livello cognitivo – i loro atteggiamenti, le loro valutazioni e i loro giudizi sul bullismo e sull'aggressività circostanti" spiega la professoressa Mulvey. "La cosa nuova, è che prenderemo queste mappature e guarderemo a questi modelli per vedere se esistano differenze nel modo in cui i ragazzi reagiscono, nei termini del loro pensiero, riguardo a interventi su atti di bullismo e sulle possibili ritorsioni".

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Sfidare la norma

La ricerca della Mulvey sulle dinamiche di appartenenza di un gruppo di adolescenti e pre-adolescenti si fonda sulla sua precedente esperienza come insegnante di inglese in Durham, nella Carolina del Nord. "Una delle caratteristiche speciali della comunità scolastica in cui ho lavorato, era che fosse incredibilmente diversificata”.

"Ma era anche il fatto che si mettesse all’interno dello stesso contesto scolastico, ragazzi che altrimenti non avrebbero frequentato altri ragazzi così diversi da loro. Esistevano pertanto un sacco di problemi sociali in riferimento all'appartenenza al gruppo".

Tra gli altri sforzi fatti per combattere l'esclusione sociale e il bullismo, la Mulvey ha contribuito a stabilire tra i suoi studenti un consenso a favore dei diritti per i gay, ma si sentiva molto ostacolata quando si trattava di influenzare il cambiamento più generale all’intero della comunità scolastica nel suo complesso.

"Possiamo anche avere ricchi confronti su 'Cuore di tenebra' o 'Amleto’ – potevano anche arrivare a fare collegamenti con le loro proprie vite – ma non mi sentivo davvero in grado di influenzare il cambiamento nel modo in cui avrei voluto all’interno della comunità scolastica. Così sono tornata a studiare per cercare di capire, su scala più ampia, come possiamo lavorare per risolvere alcuni di questi problemi".

Ora, dice, tutta la sua ricerca riguarda in qualche modo l'appartenenza al gruppo .

"Il mio interesse specifico si rivolge a quella particolare reazione del mettersi di fronte al proprio gruppo e sfidarlo. Quando si può agire come un agente positivo per il cambiamento all'interno della propria comunità sociale? I ragazzi hanno potere gli uni sugli altri, esitono queste dinamiche in cui è possibile influenzare quelli intorno a noi, ma non sappiamo molto su ciò che rende qualcuno un buon, assertivo ‘sfidante’ – quello che fa sì che tu ti senta bene con te stesso quando ti contrapponi al tuo gruppo".


L'autonomia a tutti i costi?

"Gli adolescenti sono sempre di più alla ricerca di autonomia, sono sempre più indipendenti" continua la Mulvey. "Allo stesso tempo, sono in realtà molto vincolati all’interno dei gruppi di pari . Abbiamo a disposizione molti dati che dimostrano che, man mano che si procede in adolescenza, i ragazzi diventano sempre più propensi a utilizzare gli stili di ragionamento che funzionano all’interno del gruppo dei pari. Dicono cose come: 'Non vorrei che il gruppo poi ce l’avesse con me".

Come si è verificato, gli adolescenti più giovani sono più propensi a prendere decisioni indipendenti dai loro coetanei. E mentre questo può sembrare di primo impatto controintuitivo, comincia ad avere più senso se si considerano gli aspetti evolutivi dell'adolescenza.

"I ragazzi più giovani sono più disposti a dire: 'lo farò a modo mio', il che è così sorprendente proprio perché si tende a pensare l'adolescenza come a un periodo della vita caratterizzato dalla lotta per l'autonomia" spiega la Mulvey. "Ma dove l'autonomia è spesso l'autonomia nei confronti dei genitori, l’autonomia dagli insegnanti. Spesso sono e agiscono proprio come avviene del gruppo dei loro pari, perciò – proprio perché si vorrebbe essere esattamente come i propri compagni – questo significa che al suo interno esiste un conflitto".

In breve, gli adolescenti sono al contempo alla ricerca di autonomia e appartenenza all’interno del loro gruppo di pari. Si tratta di un classico caso di ragionamento duale.

"Diranno qualcosa sulla moralità e qualcosa sulle modalità di funzionamento del gruppo, anche se naturalmente non userano queste parole" spiega la professoressa Mulvey. "Diranno, riferendosi a un compagno aggredito dagli altri, qualcosa come: 'Beh, io so che ferirà i suoi sentimenti, ma è quello che fanno i miei amici' o 'Questo è il modo in cui parliamo tra noi, quindi va bene'".

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Parliamo di razza

Ma il bullismo non si limita a intimidazioni o a molestie evidenti. Come spiega la professoressa Mulvey, può anche assumere la forma di micro-aggressioni, che possono facilmente inquinare le relazioni non solo in un gruppo di pari ma all’interno di un’intera comunità scolastica.

Più di recente, la professoressa Mulvey ha completato uno studio (insieme a ricercatori dell'Università di Londra e dell'Università di Kent) sull'umorismo basato sulla razza tra di ragazzi di 13 – 16 anni.

È stato pubblicato sulla rivista Child Development ed è stato ispirato da un'osservazione casuale, ma sconcertante.

"Ero un'intervistatrice per un progetto della CNN che stava realizzando un’indagine sulla percezione delle differenze etniche tra i ragazzi" spiega la Mulvey. "Alla fine abbiamo chiesto ai giovani: 'Cos’è che mette a disagio le persone, in riferimento alle differenze di razza?' e in alcune scuole i ragazzi hanno inizato a raccontare aneddoti che comprendevano anche battute e barzellette razziste. Tra me e me stavo pensando: 'Cosa stai facendo? In questo momento ti sta filmando la CNN e tu stai pubblicamente ripetendo queste battute razziste!'"


raccontare barzellette basate sulla razza,
influenzando così la cultura del proprio gruppo
o dell’intera comunità scolastica, costituisce una forma di bullismo


 

"Ho intervistato fino a venti ragazzi al giorno, e mi è capitato di sentirne cinque ripetere barzellette razziste, il che è semplicemente pazzesco. Ovviamente non hanno ammesso che questo fosse un problema".

Ed è sicuramente un problema, pensando ai tanti recenti episodi anche di terrorismo, scatenati dal razzismo.

“Dylann Roof's, autore del massacro di Charleston, raccontava barzellette razziste tutto il tempo, ma nessuno ha pensato che questo fosse un grosso problema" spiega la professoressa Mulvey.

E non sbagliamo affermando che raccontare barzellette basate sulla razza, influenzando così la cultura del proprio gruppo o dell’intera comunità scolastica, costituisce una forma di bullismo – anche se non del tipo che siamo soliti considerare tale.

"Queste forme lievi di razzismo o di micro-aggressioni sono spesso trascurate nei contesti. Non sono viste come forme esplicite di bullismo".

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Un problema di tutti

Un intervento deciso può fermare un episodio di bullismo attivo abbastanza rapidamente – entro una decina di secondi, secondo la Mulvey. "Quelle sono forme molto efficaci di intervenire" spiega "Come dicendo: 'Hey, questo non va bene' o dire, alla vittima, 'Vieni con me, non devi tollerare questo'".

Ci sono anche più sottili modalità di intervento che non possono certo arrestare immediatamente una brutta situazione, ma che possono essere comunque molto efficaci.

"Ho fatto molti incontri con ragazzi delle scuole intorno alla Columbia, dico loro sempre: 'Non è necessario che tu debba sentirti un eroe. Non è importante che tu intervenga fisicamente per separare due compagni. Bisogna essere consapevoli dei modi in cui si può intervenire i quali non mettano a rischio di ripercussioni, in modo da trovare un adulto o un amico con cui parlarne, oppure parlando con la vittima in seguito.

Possono anche non riuscire fermare il bullismo al momento, ma questi approcci sono tuttavia sempre efficaci e utili".


esistono un sacco di dati e riscontri che dimostrano
che le micro-aggressioni possono portare a tassi accresciuti di ansia,
abuso di sostanze, depressione, basso rendimento scolastico


 

Le conseguenze di un non intervento possono essere ben più gravi di quanto si creda. La professoressa Mulvey torna al suo studio basato sulle battute razziste per concludere il suo ragionamento.

"In riferimento all’umorismo basato sulla razza, c’è la tendenza a banalizzare. Si dice: non è un grosso problema, nessuno davvero si fa male. Dire però in che modo, psicologicamente, la gente possa farsi male, può essere più difficile. Ma esistono un sacco di dati e riscontri che dimostrano che le micro-aggressioni possono portare a tassi accresciuti di ansia, abuso di sostanze, depressione, basso rendimento scolastico".

E che questo deve far sì che il personale scolastico, i responsabili, gli insegnanti e, sì, anche gli studenti, ci facciano caso.

"Quando poi se ne vedono gli effetti, e quando ci si rende conto che l’intera comunità scolastica viene influenzata dal bullismo, credo che questo possa fare una grande differenza in termini di comunicazione del messaggio" sostiene la professoressa Mulvey. "Non è una cosa che riguarda solo le vittime e gli aggressori. La comunità scolastica nel suo complesso, soffre delle situazioni negative prodotte dal bullismo in ogni sua forma".


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