Il tagliarsi e altre forme di autolesionismo sembra che siano in aumento tra gli adolescenti. Le sensazioni e i sentimenti negativi vengono alimentati dall’interno come un veleno che sale attraverso una siringa: un insieme di tristezza, ansia e vergogna che travolgerebbe chiunque, soprattutto un adolescente. E il malessere sfocia nell’impulso a farsi del male per fermare o almeno mettere a tacere tutto il negativo che si sente dentro di sé.
L'autolesionismo, in particolare tra le ragazze adolescenti, è si è diffuso tanto rapidamente che scienziati e terapisti fanno fatica a mettersi al passo per “quantificare” e valutare in modo approfondito tale fenomeno.
Circa un adolescente su cinque indica di essersi fatto del male per alleviare il dolore emotivo almeno una volta, secondo una ricerca effettuata una decina di paesi, tra cui Stati Uniti, Canada e Gran Bretagna.
"Avevo tra le mani il bastoncino di un ghiacciolo, l’ho appuntito e mi sono ferita" ha raccontato una giovane studentessa delle superiori di New York. “Non so nemmeno di sicuro da dove mi sia venuta questa idea. Sapevo solo che era qualcosa che tanti altri facevano. Ricordo di aver pianto molto e di aver pensato: Perché l'ho fatto? Adesso avevo un po' paura di me stessa”.
Quella ragazza ha provato sollievo quando il flusso di angoscia che la faceva soffrire si è dissolto, così ha iniziato a tagliarsi regolarmente, inizialmente con un coltello, poi con la lama di un rasoio. Tagli sui polsi, sugli avambracci e infine su gran parte del corpo.
"Lo facevo per cinque, anche per quindici minuti, e dopo non avevo più quella sensazione terribile. Avrei potuto continuare per tutta la mia giornata”.
L'autolesionismo abituale, che si prolunga nel tempo, è un elemento predittore di rischio un elevato rischio di suicidio in molte persone, come suggeriscono diversi studi.
Tuttavia, si dice nello studio, esistono pochi centri di ricerca dedicati all’autolesionismo e ancora meno cliniche specializzate nel trattamento.
Quando i giovani che si feriscono cercano aiuto, spesso si trovano di fronte a allarme, incomprensioni e reazioni eccessive. La diffusione quasi epidemica del fenomeno hanno messo in luce una debolezza strutturale delle cure psichiatriche volte a sanarlo: poiché l'autolesionismo è considerato un "sintomo" e non ha una diagnosi specifica come la depressione, i test effettuati sui trattamenti sono stati casuali e i terapeuti hanno poche evidenze e certezze scientifiche cui attingere.
Negli ultimi anni, i ricercatori psichiatrici hanno iniziato a raccogliere e collegare le cause, la biologia sottostante e i fattori scoiali scatenanti dell'autolesionismo. L’insieme degli esiti di queste ricerche realizzate finora offre ai genitori - decine di milioni in tutto il mondo - alcuni spunti su quanto sta accadendo nei loro figli quando vedono su di loro cicatrici o ustioni. E consente di mettere in atto trattamenti su misura: in uno studio recentemente pubblicato, i ricercatori di New York hanno scoperto che l'autolesionismo può essere ridotto con una forma specialistica di terapia del linguaggio che era stata ideata per trattare quanto è noto come disturbo borderline di personalità.
"In passato questo tipo di comportamento era limitato alle persone con gravi disabilità, con storie di abusi sessuali, con gravi alienazioni del corpo" ha affermato Barent Walsh, uno psicologo che è stato uno dei primi terapisti a concentrarsi sul trattamento dell'autolesionismo. “Poi, improvvisamente, si è modificato e ha riguardato la popolazione generale, al punto da colpire con forza anche i ragazzi senza gravi problemi. A questo punto i finanziamenti per la ricerca sono aumentati abbiamo potuto raggiungere una migliore comprensione di quello che sta accadendo”.
La ragazza di cui si parla sopra aveva tredici anni quando ha iniziato a ferirsi. Ora, a 16 anni, è riuscita a ridurre notevolmente questa “routine”, e anche se ha dichiarato di farlo ancora, “ogni settimana o giù di lì".
Il più comune fraintendimento dell'autolesionismo è considerarlo come un tentativo di suicidio: un genitore si imbatte in un adolescente che si ferisce e la vista del sangue è per lui accecante.
"Molte persone pensano questo, ma in realtà, chi si taglia lo fa per molti differenti motivi" spiega un ragazzo di sedici anni, sempre studente liceale di New York. “Ad esempio, è l'unico modo che conosci per affrontare insicurezze intense o rabbia verso te stesso. Oppure la depressione ti ha reso tanto insensibile da non riuscire a sentire più nulla - e questa è una cosa che puoi sentire”.
Se questo metodo per calmarsi sia un'epidemia propria dell'era dei social media è ancora una questione di dibattito scientifico. Prima della metà degli anni '80 non sono stati condotte ricerche e indagini che affrontassero l'autolesionismo, in parte perché a pochi ricercatori veniva in mente di andare in quella direzione.
Negli anni '90, il pensiero dell’autolesionismo e la sua sofferenza psichica sottostante hanno iniziato a diffondersi nella cultura popolare. Personaggi popolari, attori, cantanti, ne hanno parlato. A quel punto, decine di forum online hanno iniziato a “fare comunità”, fornendo supporto e comprensione a coloro che si sono auto-feriti - e inoltre, dicono alcuni esperti, spesso rafforzando purtroppo quel comportamento, come se fosse la tessera di appartenenza a un club speciale.
"Oggi molte ragazze più giovani sono particolarmente influenzate dai vari media, in cui la questione dell’autolesionismo diventa una cosa quasi glamour" continua il sedicenne, che ha smesso di farsi del male all'inizio di quest'anno.
“Sono stato ricoverato in ospedale, ed è stato strano: molte altre ragazze sono rimaste colpite dalle mie cicatrici, e hanno detto cose come: 'Come te le sei fatte? Che invidia'. È inquietante, questo compiacimento, così come è inquietante per me pensare che le persone si sentano bene o felici quando lo fanno.
Tra gli attuali studenti universitari americani, un gruppo privilegiato per definizione, circa uno su cinque riferisce di aver fatto del male a se stesso per alleviare il dolore emotivo almeno una volta, secondo i sondaggi condotti in dieci università da Janis Whitlock, direttore del Cornell Research Program for Self-Injury and Recovery. Il primo episodio si verifica in media all'età di 15 anni, spiega Whitlock, ma un gran numero di persone autolesioniste ha iniziato in seguito, all'età di 17 o 18 anni.
Poche persone che fanno autolesionismo una volta si fermano lì, ha detto il dott. Whitlock, autore di "Guarigione dall’autolesionismo: una guida per i genitori". "Circa 3 su 4 continuano e la frequenza tende a salire e scendere, man mano che le persone entrano ed escono dalle varie fasi. "È una cosa che fa assolutamente impazzire i genitori, perché è difficile sapere cosa sta succedendo".
Questo schema di ripresa e cessazione del comportamento diventa, per circa il 20 percento delle persone che lo adottano, una vera e propria dipendenza, potente come un'abitudine agli oppiacei.
"C’era qualcosa di così forte, di così reale, nel ferirmi, ed era una cosa che era sempre a mia disposizione" dice una donna di trentadue anni che si è tagliata regolarmente per più di un decennio prima di liberarsi da questa abitudine, con una terapia; ora lavora come esperta di relazioni tra pari con adolescenti.
"Sono arrivata al punto in cui mi tagliavo così tanto, e quando ne uscivo non ricordavo nemmeno bene quello che era successo né quello che lo aveva scatenato”.
Le persone che diventano dipendenti dall'autolesionismo spesso arrivano a eleggerlo a mezzo più affidabile per trovare conforto, spiegano i terapisti. Immagini di sangue, ustioni, tagli e cicatrici possono diventare paradossalmente consolanti. In isolamento, in mezzo a una turbolenza emotiva, l'autolesionismo rappresenta un amico segreto, che può essere convocato in qualsiasi momento, senza dover chiedere permesso o dover pagare.
"A differenza del dolore emotivo o sociale, è possibile controllare il dolore fisico" e il suo effetto calmante", afferma Joseph Franklin, psicologo della Florida State University.
Franklin sostiene che i circuiti cerebrali che registrano dolore fisico e mentale, sebbene distinti, probabilmente hanno qualche sovrapposizione. La bruciatura dell'umiliazione sembra molto diversa dalla bruciatura del fuoco, ovviamente, ma esistono anche prove che il sollievo provocato dall’allontanare una mano lontano dalla fiamma può attivare gli stessi circuiti neurali che registrano il sollievo psicologico, sebbene questa connessione debba essere ancora approfondita.
Nella letteratura scientifica, la sensazione di liberazione dal dolore fisico o sociale è chiamata "sollievo dal dolore", e dalla maggior parte dei resoconti di coloro che si autolesionano, l'uso di uno per smussare l'altro può dare assuefazione.
"Come perversa conseguenza di questo effetto, le persone che pensano che il sollievo dal dolore psicologico valga la pena di quello fisico, possono pensare che l'autolesionismo sia una buona idea" spiega il dr. Franklin .
In psichiatria l'autolesionismo è considerato un sintomo, non un disturbo autonomo. Di conseguenza, le persone che si feriscono abitualmente spesso ricevono una diagnosi di base, come depressione, disturbo da deficit di attenzione, stress post-traumatico, personalità borderline, bipolare o qualche loro combinazione, che può cambiare da medico a medico.
"Mi è stato diagnosticato un disturbo bipolare, borderline, depressione" ha raccontato la donna di prima. Pensava che nessuna di queste categorie le si adattasse molto bene, e "alcuni dei farmaci che mi hanno fatto assumere mi provocavano panico e mi facevano male gravemente". Pensa alle ondate di ansia e angoscia che sentiva e talvolta sente ancora, come a una reazione post-traumatica a un'infanzia caotica.
Se una diagnosi risulta giusta, dicono gli esperti, il trattamento dovrebbe integrarla. In un articolo apparso questa estate, un team guidato da Theodore Beauchaine della Ohio State University ha affermato che le ragazze preadolescenti con una storia di traumi familiari e disordini da deficit di attenzione sono estremamente a rischio di autolesionismo, e trattare l'ADHD come lo stress traumatico sarebbe una potente strategia di prevenzione e potrebbe ridurre in seguito il rischio di suicidio.
L'unico trattamento che sembra essere più efficace per rompere l'abitudine di auto-ferirsi è una terapia di conversazione specializzata, originariamente inventata per le persone con diagnosi di disturbo borderline di personalità, che hanno un alto potenziale suicidario. L'autolesionismo abituale è un fattore di rischio per il successivo suicidio e coloro che vi dedicano, come le persone con diagnosi borderline, sopportano ondate di emozioni oscure.
Attraverso sessioni di terapia individuale o di gruppo, almeno una volta alla settimana per due o più mesi, le persone che si feriscono imparano una serie di abilità di coping per superare le sofferenze. Queste abilità includono tecniche di consapevolezza e di azione opposta, in cui i pazienti agiscono in modo opposto al modo in cui si sentono per alleviare l'angoscia sottostante. La terapia si chiama terapia comportamentale dialettica, o DBT, ed è stata sviluppata da Marsha Linehan, psicologa all'Università di Washington.
In uno studio su 800 adolescenti ricoverati a Zucker Hillside Hospital, a Glen Oaks, New York, un team di medici ha trovato che coloro che hanno fatto la terapia DBT hanno poi avuto un numero molto inferiore di episodi di autolesionismo, hanno trascorso meno tempo a controllare impulsi di suicidio e hanno avuto soggiorni ospedalieri più brevi, in media di due settimane, rispetto agli adolescenti che era stato in trattamento prima che il DBT diventasse uno standard.
Un altro tipo di terapia del linguaggio standardizzata, chiamata terapia comportamentale cognitiva o CBT, può anche essere adattata per aiutare le persone che fanno abitualmente autolesionismo. Entrambe le strategie hanno maggiori probabilità di essere efficaci quando vengono guidate dalla stessa persona che soffre.
"Si crea una vera speranza se lasci che la persona che la vive abbia un certo controllo, se la ascolti, se sei curioso del suo comportamento e non hai paura di esso” concludono gli esperti.