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Le comunità educative per minori stanno vivendo un periodo di grande difficoltà: la carenza di personale educativo; la difficoltà di garantire servizi di qualità capaci di rispondere ai bisogni dei ragazzi e delle ragazze accolti, entro le tariffe di convenzionamento definite dagli Enti Locali; la campagna di screditamento complessivo portata avanti dai media nei confronti delle strutture di accoglienza; il senso di solitudine con cui le comunità si trovano spesso ad operare rispetto alla rete dei servizi, sono tutti fattori che stanno mettendo in crisi un modello di servizio e di intervento che tuttavia risulta essenziale per il sistema della tutela. Quali strade si possono percorrere per ripensarlo? Come garantire allo stesso tempo sostenibilità e qualità dell’accoglienza? Ne abbiamo parlato con tre esponenti del CNCA Lombardia, per avviare così un dibattito sul futuro di questi servizi.

Comunità 1

Cosa succede alle comunità residenziali per minori, a livello nazionale e in Lombardia? Quante sono le strutture e quanti ragazzi e ragazze vi sono ospitati e di quali bisogni sono portatori?

Marelli – i dati che abbiamo a  disposizione sono ricavati dal Quaderno di ricerca sociale 49 [1] e sono purtroppo poco aggiornati: a livello nazionale sono aggiornati al 31.12.2019 e per la Lombardia al 31.12.2020, e questo è un primo aspetto particolarmente critico in questo periodo perché non abbiamo a disposizione nessun dato rispetto a quanto accaduto durante la pandemia. Guardando ai dati disponibili, ci collochiamo sempre in un quadro che vede l’Italia avere un tasso di allontanamento pari al 2,9 per mille, inferiore agli stati comparabili dell’Europa occidentale che hanno percentuali molto maggiori  (10,4 per mille la Francia; 10,5 per mille la Germania; 6,1 per mille l’Inghilterra, il 4,4 per mille la Spagna). Quindi l’Italia  resta la nazione che presenta la percentuale più bassa di allontanamenti, che corrisponde a 27.608 minorenni fuori famiglia, al 31.1.2.2019. Rispetto a questi dati si evidenzia un’inversione di trend nella distribuzione dei minori fuori famiglia tra affido e comunità: 14.053 minori si trovano in comunità, e superano così, seppure ancora di poco, quelli in affido. Quindi il dato registra un aumento di presenza nelle comunità.  Si tratta di una prevalenza ancora minima, ma è importante tenere sotto osservazione questo indicatore, per vedere se il trend si confermerà o meno nei prossimi anni.

Guardando alle caratteristiche dei ragazzi e delle ragazze che sono inseriti in comunità educative, si tratta prevalentemente di adolescenti e preadolescenti: il 47,8% sono in una fascia maggiore di 15 anni, e il 18,8% tra gli 11 e i 14 anni, quindi questo significa che le comunità accolgono per il 66,6% preadolescenti e adolescenti. Un altro dato importante è che il 34,8% è di cittadinanza straniera, e si tratta non soltanto di minori non accompagnati, che pure spesso trovano posto nelle comunità educative, oltre che nei circuiti di accoglienza dedicati. Un altro dato importante che sfata la narrazione pessima che è stata fatta delle comunità da parte dei media, riguarda il tempo di permanenza dei bambini e dei ragazzi in comunità: il 43% dei ragazzi ha una permanenza inferiore all’anno, il 29,7% da uno a due anni, il 14,2% da due a quattro anni, e solo il 7% oltre i 4 anni. Questo significa che nel quadro che viene narrato dai media c’è un grande errore: non è vero che i minori, una volta inseriti in comunità, ci restano per sempre, perché in realtà le comunità lavorano per riconsegnare ai ragazzi accolti una possibile relazione di familiarità, ed è anche grazie a questo lavoro se circa un quarto di loro (24,3%) rientra nella famiglia di origine, l’8,5% va in affido famigliare e quasi il 4% va verso l’affido preadottivo. Oltre a quelli appena richiamati, altri approfondimenti rispetto ai dati nazionali saranno a breve disponibili nel 12esimo rapporto del Gruppo CRC.

Per quanto riguarda la Lombardia, nel 2020 erano presenti 70 comunità famigliari, 366 comunità educative e 353 alloggi ad alta autonomia, per un totale di 789 servizi residenziali. I minori inseriti sono 2.493, di cui il 53% sono maschi e il 47% femmine, la metà sono di origine straniera (1.368) e di questi 117 sono minori non accompagnati. Rispetto alla distribuzione tra le diverse strutture, 1.913 (quindi pari al 76,7% del totale) sono collocati nelle comunità educative, 228 nelle comunità famigliari e 352 negli alloggi ad alta autonomia. Dunque in Lombardia la quota dei minori inseriti nelle comunità educative è fortemente maggioritaria e si confermano i trend nazionali rispetto alla prevalenza della comunità sull’affido e alla prevalenza della fascia adolescenziale.  In questo quadro, dunque, il venir meno delle comunità educative risulta molto problematico perché costituisce la tipologia di servizio che accoglie la quota maggioritaria di minori allontanati dalla famiglia di origine.

Tartaglione – Per quel che riguarda il numero delle comunità educative presenti in Lombardia e quanto si stia riducendo a causa della chiusura di alcune strutture, non abbiamo a disposizione dati sufficientemente aggiornati, per quanto invece la regione dovrebbe essere in grado di fornirli.  Sicuramente sappiamo di varie comunità che hanno chiuso i battenti. Per provare a ricostruire le dinamiche in corso, può essere utile guardare a quanto accade nell’area del penale minorile, che è spesso una lente di ingrandimento che anticipa quello che accade negli altri settori. Alcune strutture hanno chiuso (dai dati forniti dal Centro di Giustizia Minorile competente per la Lombardia hanno chiuso 3 strutture lo scorso anno e 4 quest’anno) e diverse strutture, pur non avendo sospeso le attività, hanno deciso di non  accogliere più minori autori di reato, e si stanno convertendo in strutture di accoglienza per minori stranieri non accompagnati. Questo è un fenomeno che si rileva anche in altre regioni, quindi non è specifico lombardo. L’area della giustizia minorile rappresenta la punta di un iceberg che coinvolge anche altre tipologie di strutture, e in questo momento il CGM si trova non poter dare seguito alle misure cautelari per diversi ragazzi per i quali dovrebbero essere attivate, a causa della mancanza di posti. E questa mancanza di posti deriva in parte da altri fattori, ma in parte anche dal fatto che le comunità non vogliono e non possono accogliere minori autori di reato perché lo ritengono rischioso in relazione alla difficoltà di avere a disposizione uno staff o un’équipe capace di lavorare con questi ragazzi, di cui tanti sono anche portatori di psicopatologie importanti.

Oggi ci troviamo proprio in queste condizioni: è talmente improbabile riuscire a trovare personale educativo motivato per il lavoro nelle comunità residenziali, da portare molte strutture alla chiusura.

Marelli – Il dato riportato riguardo al penale, è trasferibile anche al resto delle comunità: i ragazzi che arrivano nelle comunità sono spesso segnati non solo da devianza ma anche da forti condizioni di patologia, rispetto a cui però non si trova supporto nei servizi, per una totale assenza di integrazione socio-sanitaria. Diventa difficile riuscire a ottenere una psicodiagnosi o ad avere accesso ai trattamenti necessari. Le comunità si trovano spesso sole nel cercare risposte ai bisogni dei ragazzi, mentre dovrebbero costituire lo snodo di una rete, che invece non funziona.

Pensiamo che il fatto che sia venuta meno la gestione pubblica delle comunità non possa corrispondere a una delega del 100% al privato sociale. È necessario ricomporre sistemi di corresponsabilità, che non può essere trasferita sulle comunità. Oggi le comunità chiudono perché non riescono a sostenere un’accoglienza di qualità per diverse ragioni, stante le condizioni e i bisogni delle persone accolte: carenza di operatori, che non vengono a lavorare in comunità, turnover costante, demotivazione, incapacità di stare in quei contesti.

Proprio pochi giorni fa Regione Lombardia ha emesso la DGR 6443 con la quale rivede i requisiti necessari per il personale socio educativo in relazione ad alcune unità di offerta, tra cui le comunità educative, aprendo alla possibilità di assumere anche personale con altri titoli. Dal vostro punto di vista questa è una risposta utile ai problemi di mancanza di personale che state rilevando?

Marelli – Abbiamo lavorato molto con la regione per arrivare a questo risultato. Se l’obiettivo è tenere aperte le comunità, bisogna trovare delle strategie per riuscirci, e questo è uno strumento transitorio per provare a uscire da questa situazione, sia rispetto al tema delle responsabilità di sistema e di governo, sia rispetto alla formazione professionale. Rispetto a questa delibera molti si dicono preoccupati per la perdita di competenze o di specializzazione del personale, e anche alcune associazioni di educatori si sono dette contrarie, evidenziando un rischio di squalifica del ruolo data dall’apertura a personale con titoli di studio diversi. Ma per noi è importante sottolineare che senza questo passaggio della regione oggi molte comunità andrebbero incontro alla chiusura. Poi questo non significa che gli educatori non debbano più lavorare nei servizi, né si tratta di un abuso di titolo, ma la Delibera dice che l’équipe può essere composta da diverse figure professionali, che devono essere formate. Dunque a nostro parere non si tratta di una dequalificazione, ma di ampliare le opportunità di lavorare in comunità ad altre figure professionali.

Tartaglione – Nel sistema della tutela minori le comunità costituiscono un tassello indispensabile per la protezione dei minorenni: cosa succede se chiudono? Noi ci stiamo muovendo per garantire la loro sopravvivenza. L’accellerazione della crisi, dal punto di vista del reperimento del personale, è stata sicuramente dettata dallo spostamento di moltissimi educatori al sistema scolastico, nel momento in cui la scuola, non avendo più personale da assumere, ha aperto all’insegnamento attraverso la “messa a disposizione” a cui moltissimi educatori hanno aderito. Quindi la possibilità di poter acquisire anche altre figure professionali costituisce un’opportunità importante. Rispetto alle critiche alla DGR, bisogna dire che rispetto al personale, anche noi saremmo probabilmente più contenti di incaricare solo educatori, e se le associazioni di educatori hanno a disposizione personale per le comunità noi non vediamo l’ora di assumerlo, ma al momento la situazione è un’altra.  Però è importante che si discuta anche del perché gli educatori non vogliono lavorare in questi servizi.
Ci sono però anche altri fattori che contano e che è importante richiamare:

  1. Il deperimento della reputazione delle comunità: se una volta essere educatore in comunità significava lavorare in un servizio complesso e difficile ma formativo e pieno di senso, oggi gli educatori crescono avendo una visione delle comunità che è quella dettata dalle rappresentazioni dei media, in cui sono diventate se va bene un luogo come un altro e se va male un luogo che è in combutta con i Tribunali per far arricchire le cooperative. Questo porta a un’enorme difficoltà a trovare personale educativo disponibile e motivato al lavoro nelle comunità. Le comunità stesse devono trovare un modo di comunicarsi, e allo stesso tempo creare delle occasioni di conoscenza diretta.
  2. Il paradigma che c’è alla base dell’accordo tra lo Stato e le comunità risale agli anni ’80 -90’, in un momento del tutto diverso da tanti punti di vista. Le comunità sono nate in modo del tutto spontaneo, dunque senza che si ponesse il tema della retribuzione, e in seguito si è fondato un accordo di funzionamento delle strutture, in un periodo in cui per gli operatori era plausibile sacrificare una parte della propria vita privata al proprio lavoro educativo. Oggi non è più così, ma noi chiediamo ancora ai nostri operatori di sacrificare parte della loro vita privata lavorando la notte e nei weekend. Quindi la brutta notizia per lo Stato è che il tema non è battagliare su uno o due euro ma che se si vuole mantenere e sviluppare un servizio di qualità, le comunità vanno pagate infinitamente più di ora, oppure la chiusura delle strutture è un processo che difficilmente si potrà arrestare.

Marelli – È necessario invertire il circolo del gioco al ribasso sul numero di ore, sui costi orari, sul numero di operatori necessari, che rimanda anche sulle cooperative una responsabilità sui contratti e sulle tariffe, che di fatto non dipende da loro. O si capisce che il lavoro sociale, che è un lavoro di cura, comporta una ridefinizione del costi e un investimento, oppure il destino è quello di un lavoro dequalificato e deprezzato che porta a un sistema di welfare sempre più impoverito. È necessario il riconoscimento della funzione pubblica che le cooperative ricoprono assumendosi l’impegno di tenere aperte le comunità, e dei costi che per questa funzione sono necessari. Lo Stato non li assume direttamente su di sé, delegando tutto all’esterno, ma questo non significa che i costi siano continuamente negoziabili.

Rispetto a tutte queste questioni riteniamo importante riaprire un dibattito pubblico, per richiamare una responsabilità pubblica che definisca un investimento di risorse, e al contempo richiami le Università a riflettere su queste problematiche e a ripensare i percorsi formativi.

Il tema del riconoscimento dei costi è stato recentemente al centro del mancato convenzionamento di 20 cooperative con il Comune di Milano per la gestione di comunità per minori e comunità mamma-bambino, dettato proprio dal rifiuto delle tariffe previste e ritenute inadeguate per sostenere gli standard e la qualità dei servizi. Questo significa per l’Amministrazione perdere la disponibilità di oltre 500 posti di accoglienza, e per le cooperative rinunciare a una parte dei loro servizi.

Cattaneo – In questo caso si è trattato di un percorso di mancato riconoscimento della dignità del nostro lavoro da parte del Comune di Milano. Abbiamo realizzato un percorso insieme da luglio a novembre sul tema della residenzialità per provare a condividere i contenuti e il senso del nostro lavoro e per ridisegnare le comunità e porre il tema delle risorse economiche. Il percorso si è concluso a novembre quando il Comune ha dichiarato che per poter aumentare la retta a 93 euro (consideriamo che la media delle rette giornaliere per l’accoglienza di un minore è di 77 euro e ci sono comunità che fino al 30 giugno accolgono minori a 42 euro, mentre la retta massima attuale è di 83 euro) avrebbe dovuto ridurre la retta per gli alloggi per l’autonomia a 48 euro, riducendola quindi a 17 euro, tentando un bilanciamento tra strutture diverse. Le cooperative non hanno accettato questa proposta e hanno fornito tutta la documentazione e i dati necessari per dimostrare che queste tariffe sono inapplicabili. Consideriamo che già diverso tempo fa  in un  lavoro comune con l’Amministrazione, si era calcolato per una comunità che accoglie 10 minori un costo di 104 euro al giorno, mentre la cifra definita è di 93 euro a Milano e 87 fuori Milano, che seppure maggiore di prima, resta ancora del tutto inadeguata.

Anche questa presa di posizione, così come quella relativa alla DGR, è stato un impegno non da poco e non ha trovato consenso da parte di tutti i soggetti gestori che operano in convenzione con il Comune di Milano. Quello che dobbiamo riavviare con il Comune è un tavolo di confronto, che probabilmente non porterà modifiche a breve termine, ma che speriamo ci possa portare a una revisione entro il prossimo anno di tutte le tariffe del sistema residenziale.

Pensate ci sia da parte dei Comuni la disponibilità a sedersi intorno al tavolo non solo per rivedere le tariffe ma per ripensare un ruolo per questi servizi e per capire quali possono essere le strade che tengono insieme le diverse esigenze rispetto ai costi, alle tariffe ma anche alla qualità dei servizi?

Tartaglione – Una parte di questo ragionamento non si può giocare esclusivamente con l’assessorato, perché è irrealistico che possa spendere molto di più di quanto spende ora. Sarebbe importante invece fare una riflessione insieme alle istituzioni rispetto a come le risorse possano essere spese meglio, perché dispersioni di spesa ce ne sono molte, ma la strategia per contenere i costi non può essere quella di rimandare sulle comunità la ricerca di altre risorse tramite sponsor e benefattori. Più che ridurre le rette, sarebbe più ragionevole capire quali sono le strade per ridurre i tempi di permanenza dei ragazzi in comunità. Il vero punto però è che bisogna uscire dalla relazione solo tra enti e comuni, perché è una questione di investimento complessivo.

Marelli – Andrebbe rivisto il sistema, per esempio attraverso una rivalutazione delle risorse a livello di Ambito per i piccoli comuni, per ripensare le modalità di utilizzo delle risorse. Ma spesso provare a immaginare percorsi diversi che potrebbero alleggerire i costi incontra una grande fatica nelle dimissioni perché richiede la costruzione di accordi anche con i Tribunali per la definizione di percorsi diversi. C’è un tema di responsabilità collettiva, quindi ragionamenti che devono coinvolgere gli Ambiti in una ridistribuzione di risorse e di processi, una razionalizzazione nella destinazione dei fondi ma anche un governo politico di modifiche dei bilanci dei Comuni in senso lato, in un sistema di governo dell’Ente Locale che va oltre l’assessorato, perché la responsabilità del benessere dei cittadini è in capo al sindaco e non al singolo assessore.

Quali prospettive vedete per un ripensamento della strategia complessiva di funzionamento delle Comunità?

Cattaneo  – Noi dovremmo fare un’alleanza con i Comuni e con ANCI stesso per farci portatori di un’istanza verso il Ministero, laddove viene definita la distribuzione delle risorse, perché anche questo settore del welfare sia destinatario dei fondi necessari per essere rivisto, rilanciato e sostenuto.

Tartaglione – Il tema non è solo rivendicare una retta più alta, ma riguarda la necessità di ripensare le comunità in una logica di appropriatezza e di costruzione di un sistema plurale e flessibile, in grado di:

  • collocare le comunità educative in un percorso che prevede un “prima”, con interventi diurni e di sostegno alle famiglie, e un “dopo”, tramite percorsi di uscita e di sostegno all’autonomia;
  • rafforzare il ruolo della rete dei servizi a sostegno dei percorsi dei bambini e ragazzi inseriti in comunità, in particolare in ambito socio-sanitario, mettendo a disposizione diagnosi e terapie in tempi utili e con attribuzione di priorità;
  • spostare i ragazzi maggiorenni che si trovano in comunità per minori in altre forme di accoglienza, anche incentivando le cooperative ad aprire appartamenti per l’autonomia;
  • sostenere e diffondere il lavoro con le famiglie, sia da parte dei Servizi Sociali, sia da parte delle comunità educative;
  • rafforzare i centri e i servizi diurni così da ridurre la richiesta di interventi residenziali.

Marelli – Tutto questo deve certamente passare da un confronto attraverso tavoli di lavoro, per i quali siamo assolutamente disponibili, ma anche attraverso un cambio di mentalità e di paradigma, riconoscendo che così non può funzionare. Non è soltanto il rivendicare la retta, questo discorso è collocato dentro una pluralità di pensieri, che vanno dal tema della responsabilità e della funzione pubblica, alla qualità del lavoro sociale, alla sostenibilità economica e alla necessità di rivedere le modalità di allocazione delle risorse in base alla diversificazione delle risposte.

Oltre a questo, è necessario tematizzare e confrontarsi in merito a come tutelare e rilanciare le professioni di cura, che svolgono una fondamentale “funzione pubblica” di tutela dei diritti dei cittadini, in particolar modo delle fasce più fragili della popolazione. A questo proposito abbiamo organizzato per il 5 di luglio, un convegno proprio su questi temi, che speriamo sia solo l’inizio di un dibattito aperto.

[1]Quaderni di ricerca sociale 49 “Bambini e ragazzi in affidamento familiare e nei servizi residenziali per minorenni – Anno 2019” a cura del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali e Istituto degli Innocenti


Fonte: Lombardia sociale


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