Diversi aspetti colpiscono nella vicenda del rider napoletano aggredito con ferocia, rapinato e privato dello scooter – cioè del suo essenziale strumento di lavoro – nella notte tra l’1 e il 2 gennaio da un gruppo di 6 ragazzi, 2 ventenni e 4 minorenni, tutti attualmente in carcere in attesa di giudizio.
È stato evidenziato come molti componenti del gruppo fossero figli d’arte, in quel Rione dei Fiori meglio conosciuto come “Terzo Mondo”. Con il padre dentro e fuori dal carcere, oppure ucciso dalla criminalità, ripetono prodezze conosciute fin dall’infanzia in una sequenza che sa di predestinazione: se il padre pratica l’illegalità, la violenza, la prepotenza, anche il figlio lo farà.
Il circolo vizioso è destinato a ripetersi, se non si propongono a questi ragazzi modelli alternativi di cui andare fieri e nei quali possano scegliere di identificarsi. Provano a farlo belle realtà sul territorio che hanno molto bisogno di sostegno da parte delle istituzioni. Ci prova, dapprima in Calabria ma ormai in tutta Italia, la giustizia minorile con il protocollo d’intesa “Liberi di scegliere” che coinvolge il Dipartimento Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, la Direzione Nazionale Antimafia, i Ministeri dell’Istruzione e degli Interni insieme all’Associazione Libera e ad altre istituzioni.
Il protocollo ha un lungo sottotitolo che dice tutto: “Assicurare una concreta alternativa di vita ai soggetti minorenni provenienti da famiglie inserite in contesti di criminalità organizzata o che siano vittime della violenza mafiosa e ai familiari che si dissociano dalle logiche criminali”. Lo ha avviato con coraggio, sensibilità e determinazione, a Reggio Calabria nel 2017, l’allora presidente del Tribunale per i Minorenni Roberto Di Bella.
Era già stato giudice in quel tribunale, aveva processato adolescenti ribelli che pochi anni dopo aveva ritrovato al Tribunale ordinario, quello degli adulti, dove era stato nel frattempo trasferito, e aveva sofferto per quelle vite obbligate. Ecco perché, quando è rientrato al Tribunale per i Minorenni come presidente, ha aperto una strada nuova che ha permesso a tanti adolescenti di uscire dal solco e iniziare una vita nella legalità e nel rispetto. Senza semplificazioni, con tutte le contraddizioni che questa scelta comporta.
Insieme ai figli, nel tempo, anche le madri hanno incominciato a dissociarsi o quantomeno a chiedere che i giudici minorili mettessero al sicuro i loro figli. Su questa straordinaria esperienza Roberto Di Bella ha scritto il libro “Liberi di scegliere” da cui è stato tratto un film per la Rai.
Nel gruppo degli aggressori di Calata Capodichino però c’è anche un insospettabile. Un ragazzo di 16 anni che quella sera avrebbe accettato di unirsi al gruppo senza conoscerlo davvero – questo ha dichiarato alla convalida dell’arresto – e non proviene da ambienti criminali. I genitori lavorano onestamente, lui va a scuola ed è bravo a calcio. La madre, dopo la notizia, piangendo ha espresso il desiderio di abbracciare il rider picchiato dal figlio per chiedere scusa.
È un esempio molto importante quello che la madre sta dando al ragazzo. Possiamo sperare che da quel dolore non ripiegato su se stesso, ma pronto a riparare il male procurato, il giovane tragga la forza per prendere realmente le distanze da un modello che per certi versi può averlo affascinato, può essergli sembrato vincente. L’ho visto succedere anche in Emilia Romagna, dove la criminalità organizzata, pur presente, non è percepita come orizzonte di vita dai giovani. Eppure mi è capitato di incontrare ragazzi che in gruppo avevano insultato e picchiato persone indifese per il solo gusto di farlo. Me lo raccontavano senza troppa enfasi, come un passatempo. Vedevo in quella superficialità il disprezzo della debolezza – e cioè dell’umanità – di ciascuno di noi, e di loro. Solo se accompagnati pazientemente nella riflessione, e tramite i percorsi di messa alla prova che li ingaggiavano in esperienze di aiuto a persone fragili, riuscivano realmente a comprendere i propri errori.
In questo senso mi permetto di dire a quella mamma di pensarci due volte, prima di dire che il gesto di suo figlio “non è criminalità ma solo bullismo”, come diversi quotidiani hanno riportato. Non lo dico solo perché il bullismo è un’altra cosa, prevede una ripetizione degli atti sulla stessa vittima che qui non c’è stata. Lo dico soprattutto perché, se anche si volesse far coincidere il termine con “ragazzata” o “spacconata”, non è minimizzando la portata della violenza che ci si avvia a superarla. Certo il percorso che ora si apre non dovrà diventare un marchio a fuoco sulla pelle di questi giovani – il processo penale minorile è strutturato apposta per non diventarlo – ma è bene che i ragazzi capiscano quanto è grave ciò che hanno fatto.
Li aiuta in questo Gianni Lanciano, la loro vittima, che credo abbia reso un grande insegnamento. Abbiamo letto trattarsi di un uomo sulla cinquantina, sposato e con due figli, che si è adattato a fare il rider dopo aver perso il lavoro di macellaio in un supermercato. Un commentatore ha ritenuto che proprio l’età lo abbia reso papabile agli occhi dei ragazzi: un adulto che fa un mestiere da ragazzino è un perdente. (Non so se sia andata veramente così. A prendere per buona questa interpretazione, torna il pensiero di quella insopportabile debolezza che si vuole estirpare da sé, colpendola negli altri). Eppure il loro “sfigato” ha espresso subito un profondo rammarico per i suoi assalitori, atteggiamento opposto a quel “buttare la chiave” invocato spesso in casi analoghi. C’è un’attenzione autenticamente paterna in quel suo dispiacersi senza minimizzare la violenza subita, che ha rivisto nel video diffuso in rete, anzi rivolgendosi agli aggressori in modo accorato affinché cambino strada. Lui poi ha ripreso il lavoro il giorno seguente, e un po’ mi chiedo se sia colpa del contratto disumano di questi lavoratori, ma certo è anche segno della sua grande dignità.
L’ultima osservazione riguarda l’uso del mezzo audiovisivo che ha concorso a costruire la realtà. Le immagini riprese con cellulari e telecamere hanno esaltato l’impresa, l’hanno fatta conoscere all’opinione pubblica, hanno aiutato gli inquirenti a risalire agli aggressori. Tanti volenterosi su quella scia emotiva si sono uniti in una raccolta fondi e hanno messo insieme in poche ore oltre 11mila Euro per ricomprare lo scooter a Gianni Lanciano, mentre una nota macelleria ha offerto un lavoro a lui e ad altri. In tutto questo, ironia della sorte, la Procura ha aperto un’indagine su quella raccolta fondi ritenendo ci sia qualcosa di poco chiaro.
Lo stesso video è stato di stimolo, pochi giorni dopo, per un diverso gruppo di ragazzi che hanno simulato l’aggressione a un altro rider e, fermati, si sono parati dietro all’idea dello scherzo. Un’altra prodezza che rappresenta bene le luci e le ombre della contemporaneità, in questo continuo fondersi tra realtà e finzione. Per crescere in responsabilità c’è ancora strada da fare.
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta