La notizia di una donna trovata in stato confusionale, in Umbria, e arrestata con l’accusa di avere accoltellato il figlio di 2 anni che portava con sé, ci riporta al tema dei bambini morti per mano dei genitori. Non è raro come vorremmo credere: 21 nel 2017, 31 nel 2018.
Quando si parla di bambini molto piccoli, 9 volte su 10 a uccidere sono le madri. Si chiama in causa la malattia mentale, la solitudine estrema, il gravissimo disagio sociale ed economico. Poi ci sono i figli sacrificati per ferire l’altro genitore durante una contesa. Questo invece risulta un comportamento prevalentemente maschile, anche se il caso umbro sembra fare eccezione giacché la signora ha mandato una foto del piccolo al padre, che non vive in Italia.
Il tempo ci dirà di più. A me questa storia ne ha rievocate altre che ho conosciuto da vicino come giudice onorario minorile. Una, più di tutte.
Il tribunale per i minorenni viene chiamato in causa per decidere con chi debba vivere un bambino sui 10-12 anni riconosciuto solo dalla madre. Provenienti da uno stato dell’Est europeo, insieme vivono presso una persona molto anziana che la madre assiste e sono diventati di famiglia con i figli e i nipoti. Tutto bene finché la mamma ha una relazione, resta incinta, nasconde la gravidanza ai datori di lavoro, viene lasciata dal compagno. Partorisce, sola, nel bagno di un locale affollato, ficca il neonato nella borsa e se ne va. Il bimbo muore, e la signora viene portata in giudizio con l’accusa di averlo ucciso.
Quando vengo coinvolta, il ragazzo è in una famiglia affidataria (per età, nonni più che genitori) e sente di avere trovato ciò di cui ha bisogno, in termini sia affettivi che educativi e di cura. Incontra la mamma periodicamente in forma protetta, vale a dire alla presenza di un educatore.
Parlo in udienza con gli operatori, la madre, gli affidatari, il ragazzo. L’avvocato della madre presenta un’istanza affinché la signora possa riavere il figlio con sé, nell’appartamento dove è agli arresti domiciliari in attesa della pronuncia del giudice. Il legale sostiene si capirà nel tempo che il neonato sì, è morto, ma non per colpa della donna che lo ha partorito, e comunque la signora con il primo figlio è stata sempre amorevole e non si vede perché non debba essere ritenuta in grado di occuparsene. Sostiene le sue tesi con un qualche riferimento ai legami di sangue, al diritto di ogni bambino a crescere con la propria famiglia secondo la Convenzione di New York e la legge italiana, e poi di mamma ce n’è una sola, e chi meglio di lei?
Questi argomenti sono espressi con tutti i crismi di legge e ripetuti dalla signora – mi sembra – più per orgoglio che per affetto, cioè soprattutto per il bisogno di riabilitarsi provando a se stessa e al mondo di essere dopotutto in grado di crescere un figlio.
Gli affidatari raccontano una quotidianità tutto sommato serena, solo turbata dall’ombra della madre e di ciò che si suppone abbia commesso, anche per essere stato ripreso da tv e giornali e quindi conosciuto dal ragazzo aldilà di ogni loro tentativo di proteggerlo.
Essenziale per decidere è l’incontro con il figlio. Mi parla della sua vita fatta di scuola, amici, sport, e senza reticenza anche del rapporto con la madre, dei suoi incontri con lei e del fatto che la mamma ha fatto richiesta di averlo presso di sé. È chiarissimo: “Ho paura di lei, non voglio incontrarla senza l’educatore. Se ha potuto fare del male a mio fratello, potrebbe fare lo stesso con me. Voglio continuare a vivere nella mia famiglia” – vale a dire con gli affidatari, con cui sente di essere a casa.
Niente da eccepire sulla logica del bambino che come mille altri, solo che gli adulti facciano un po’ di spazio e offrano un ascolto attento, è perfettamente in grado di esprimere i propri desideri e di motivarli.
Gli pesa, e me lo dice, che la madre durante gli incontri protetti butti lì frasi che sembravano fatte apposta per farlo sentire in colpa: di rifiutarla, di non amarla abbastanza, di non ricambiare l’affetto che lei è pronta a dargli. È una cosa che tanti bambini vivono durante questi incontri. Il genitore, richiamato, direbbe che non può esimersi dal far sentire al figlio quando gli manca e quanto bene gli vuole, ed è comprensibile; d’altra parte un figlio non dovrebbe portare il peso della sofferenza dei genitori, soprattutto quando sono loro ad esserne i principali artefici.
Non è facile immaginare come possa sentirsi il figlio di un genitore violento. Quello di cui parlo chiedeva di essere rispettato nelle sue paure e nel bisogno di mettersi al riparo dalla madre che, sentiva, avrebbe potuto fagocitarlo in qualsiasi momento.
Certo, lo avrebbe stabilito l’autopsia se il piccolo era morto per il gesto di lei o per una qualche concausa intervenuta a prescindere, come sosteneva l’avvocato, ma il seme di una responsabilità rimaneva. E se già questa donna lo aveva fatto, di voler cancellare un bambino, avrebbe potuto farlo di nuovo.
Per il ragazzo quella minaccia esisteva in potenza. Anche essere sopravvissuto, primo figlio di una donna che ha potuto fare del male al fratellino che è un altro se stesso, per lui era un peso da portare. Sarebbe stata una colpa perenne prendersi un affetto che al piccolo era stato negato, insieme – forse – alla vita. Sarebbe stato fare finta di niente di fronte alla violenza ma la violenza, estrema soprattutto, non si può accantonare. La violenza sporca l’amore, lo corrompe lo intride, pesa come un macigno che impedisce il cammino.
Il ragazzo è rimasto con gli affidatari secondo il suo desiderio, ha continuato con gli incontri protetti. E la pretesa della madre con il suo avvocato mi è rimasta in testa come una delle più surreali applicazioni del diritto di famiglia cui ho assistito.
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta