In un webinar dell’Università degli studi di Urbino dal titolo “Giustizia riparativa: quale partecipazione per autori di reato minorenni, vittime e comunità?” ho ascoltato una storia talmente bella che sarebbe un peccato non condividerla.
La giustizia minorile è quella dove più si sono sperimentate forme di riparazione, probabilmente perché con autori di reato molto giovani è più facile far passare l’idea (tra i giudici, tra gli operatori, nella comunità intera) che non siano proprio e completamente “cattivi” ma possano essere “rieducati”. Se non tutti, almeno una certa parte. È un peccato stringere il campo ai giovanissimi, se è vero che – secondo lo spirito della nostra Costituzione – tutta la giustizia penale italiana dovrebbe tendere alla rieducazione e al riscatto del condannato ma con autori di reato minorenni, dicevo, ci si crede e lo si sperimenta di più, a volte ancora in fase di indagini.
Come la nonviolenza viene spesso scambiata per passività, così la giustizia riparativa viene confusa con un atteggiamento assolutorio verso gli autori di reato e con l’obbligo del perdono da parte della vittima, quindi caricata sulle spalle di chi già ha subito violenza, e invece non si tratta di questo. La giustizia riparativa è tesa appunto a rimediare i danni, a ricostruire le relazioni, a proteggere il presente e il futuro delle persone già segnate dal reato. Nel presupposto c’è che anche chi lo ha commesso ne porti il segno. Sulle cicatrici della vittima non si può dubitare.
Questa forma di giustizia si prende cura di tutte le cicatrici, anche quelle della comunità. Non corrisponde alla sete di vendetta e non si accontenta di compiacere l’orgoglio ferito, privato o collettivo che sia, ma cerca di riconnettere i bisogni profondi, vuole coinvolgere e svelare l’umanità di chi ha sbagliato e di chi ha subito. Desidera che entrambi si mettano in gioco e ne escano arricchiti. Sono presupposti e intenzioni apparentemente illogici, incomprensibili o respingenti nel tempo del pan per focaccia, delle armi date in aggiunta, della gara a chi urla più forte, delle delusioni che fanno sentire in dovere di colpire al cuore.
La pratica più nota nella giustizia riparativa è la mediazione penale ma non è l’unica. Quello che è successo nella storia che desidero condividere, ad esempio, non è una vera e propria mediazione, per diverse ragioni. La prima è che si è svolta in un contesto allargato, quello di una classe scolastica, e non in un ufficio di mediazione penale. La seconda è che sono state coinvolte anche persone estranee ai fatti: uno degli studenti aveva commesso un reato dagli effetti devastanti, aveva tolto l’uso delle gambe a un giovane uomo, ma tutti gli altri non avevano commesso un bel niente. La terza ragione è che un incontro si è svolto ma non con quel giovane uomo e neppure con i suoi familiari. Alla classe è stata proposta la testimonianza di una donna segnata da una violenza diversa.
Questa signora è madre di una dei dodici ragazzi e ragazze morti nella strage dell’Istituto “G. Salvemini” di Casalecchio il 6 dicembre 1990, quando un aereo militare italiano precipitò contro la scuola causando anche il ferimento di decine di persone.
La donna entra in questa classe e racconta della figlia. Della bambina e poi della ragazza che è stata, delle passioni, delle incertezze, dei sogni e delle paure, della quotidianità. E poi parla della mancanza. Del vuoto incolmabile della figlia perduta. E tra tutte le mancanze anche quella di una richiesta di perdono che, spiega, dal pilota militare non è mai arrivata: “Se solo ci avesse chiesto scusa…”.
Il ragazzo autore di reato scoppia in un pianto dirotto. Si avvicina alla signora, domanda il permesso di chiederle lui perdono al posto di quel pilota. Chiede di poterla abbracciare.
Nella stretta che segue il ragazzo, straniero e con i genitori lontani, le dice: “Mia madre non è in Italia con me, vorrei tanto avere una mamma come lei”. Allora la donna promette: “Fino a che sarai qui in questa scuola, verrò io per te ai colloqui con gli insegnanti”, e così è stato.
Qui termina la storia. Un breve incontro intenso e, io credo, di grande apprendimento per chi lo ha vissuto e per noi che possiamo conoscerlo.
È certo che un’ondata di commozione non vale e non potrà mai sostituire un processo, e difatti il ragazzo quel processo lo avrà avuto e avrà risposto delle sue azioni. L’incontro di cui ho detto è semmai un’aggiunta, nel senso capitiniano del termine. Un rispettare tutto ciò che è dovuto e poi però spingersi un passo più in là, cercando un senso che non si colloca necessariamente in opposizione alla regola ma che le regole da sole non danno.
Che in quell’incontro il ragazzo autore di reato abbia compreso dal di dentro il senso di ciò che ha commesso, più che in tutti gli anni di galera che gli si possono augurare o comminare nella realtà, io ne sono sicura. Come credo che al processo sarà arrivato, sulla scorta di questo incontro, con una consapevolezza diversa, e un’urgenza che non si risolve nello strappare la pena più lieve per vivere come se quel maledetto giorno non ci fosse mai stato.
A me piace pensare che anche per i compagni quella sia stata una lezione speciale, che le forme consuete del processo non avrebbero consentito. Il riverbero che l’amministrazione della giustizia ha sulla società in cui si svolge è ugualmente un tema su cui riflettere in profondità.
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta