La porta è piccina, la figura in smoking rosso deve chinare il capo. Varcando la soglia si lascia alle spalle i colori. Dalla sua immersione sono affiorate migliaia di immagini, una selezione delle quali è esposta alla Fondazione Venezia fino al 31 gennaio.
La mostra “Scatti sospesi” raccoglie fotografie di Andrea Casari che, a partire dal 2006, documenta i laboratori condotti da Michalis Traitsis, direttore di Balamòs Teatro, nelle carceri maschile e femminile di Venezia. È stata pensata in occasione di “Destini incrociati”, la rassegna internazionale che si è svolta dal 23 al 25 novembre 2022 presso l’Università di Ca’ Foscari, promossa dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, con il sostegno del Ministero per i beni e le attività culturali e nell’ambito del protocollo sottoscritto con il Ministero della Giustizia.
Una quarantina sono gli scatti in parete, oltre quattrocento scorrono in un grande schermo grazie alla cucitura del regista Marco Valentini. Nel video non mancano i volti noti: Silvio Orlando, Alessandro Gassman, Emir Kusturica, Ottavia Piccolo, Giuliano Scabia, Antonio Albanese (protagonista di un film sul tema, “Grazie ragazzi”, in sala proprio in questi giorni), e ancora Paolo Virzì, Pippo Del Bono, Gabriele Salvatores e molti altri hanno visitato le carceri veneziane per una conversazione o un laboratorio, anche grazie alla collaborazione costruita negli anni da Balamòs Teatro con la Biennale di Venezia. Più di tutto, però, mi hanno colpita i ritratti delle donne.
Un’energia sfacciata e rovente ci cattura nel gioco di luci e ombre. Un’intensità spinta all’estremo, nell’euforia come nella disperazione. In alcune attrici colpisce la femminilità, la ricercatezza nella cura del corpo. Per altre si direbbe che l’esperienza avesse scavato solchi troppo pesanti portando via la dolcezza. Del contorno di disagio sociale e psichico, dipendenze e abbandoni, non sappiamo nulla. L’immagine ritrae istanti di bellezza con rispetto e pudore. Certo la violenza è presente in quelle vite, esercitata e subita. In parte lo possiamo studiare.
Le donne commettono molti meno reati rispetto agli uomini. I dati elaborati dal Ministero dell’Interno per gli anni 2019-20 le vedono costituire circa il 18% delle persone denunciate. I reati femminili più frequenti sono i furti, le frodi informatiche, le minacce, le lesioni e i reati connessi agli stupefacenti.
La detenzione femminile è ulteriormente minoritaria. Il XVIII Rapporto sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone rileva alla fine del 2021 un totale di 54.134 persone ristrette e, tra queste, le donne erano il 4,2%, un dato pressoché invariato da oltre vent’anni. Una raccolta di brevi testimonianze può essere letta a questo link.
Soprattutto quando occupano piccole sezioni all’interno di istituti maschili, la vita delle donne è particolarmente dura in quanto si svolge secondo regole e in luoghi pensati per i maschi. Inoltre, riporta il Ministero dell’Interno, per evitare la promiscuità le donne non hanno accesso alle attività sportive, formative e di lavoro che hanno luogo negli spazi comuni e vengono perciò riservate alla maggioranza dei presenti.
In generale l’esperienza della detenzione assume connotazioni di genere. “Il carcere rappresenta un problema maggiore per le donne che per gli uomini”, scrive Antigone, “in quanto oltre al romperne i legami familiari le allontana da quello che vivono come dovere di tutela e cura. (…) Quando entrano in prigione, gli uomini rimpiangono la perdita delle loro posizioni di prestigio, la capacità di controllare le proprie famiglie, e il fatto di dover obbedire agli ordini. Le detenute, d’altra parte, rimpiangono soprattutto la perdita dei loro legami familiari e dei propri figli, una perdita che si trasforma spesso in senso di colpa, e nella sensazione di averli delusi”.
Dato il ridotto numero di istituti femminili è frequente che la lontananza dai familiari sia considerevole. Tante detenute vivono la separazione dai figli, e che cosa significhi confrontarsi con dei ragazzini, come avviene ogni anno a Venezia quando Michalis Traitsis propone alle detenute attrici di recitare insieme a un gruppo di allievi di un istituto comprensivo ferrarese, è difficile immaginare. Certo, l’impatto di queste possibilità di espressione e di incontro è potente.
Spulciando sul sito del Coordinamento Nazionale apprendo che è molto recente (maggio 2022) il rinnovo del protocollo interministeriale per la promozione del teatro in carcere. Una pratica che, ove presente – vale a dire in circa la metà degli istituti di pena italiani – restituisce ai detenuti consapevolezza e rispetto di sé, li porta a contatto con le proprie emozioni, costruisce competenze e, in esito a questo percorso, contribuisce a ridurre significativamente la recidiva dopo le scarcerazioni. Le ragioni le descriveva già Fedor Dostoevskij, che la detenzione aveva conosciuto:
“Così lo spettacolo finisce […]. I detenuti si sbandano allegri, contenti, facendo gli elogi degli attori e ringraziando il sottufficiale. Non si sentono diverbi. Tutti sembrano contenti, felici persino, e si addormentano diversamente dal solito, con animo quasi tranquillo. Perché mai? No, non è un parto della mia immaginazione. È la semplice e pura verità. Per pochi brevi momenti era stato concesso a quella povera gente di vivere secondo il loro desiderio, di divertirsi umanamente, di trascorrere almeno un’ora non da forzati, ed ecco, non fosse che per pochi minuti, avvenire un benefico cambiamento nello spirito dell’uomo” (Memorie della casa dei morti).
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta