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È arrivato a 13 anni in Italia. Con la sua valigia piena di rabbia, solitudine, abbandono e paura. Inconsapevole. Piccolo per capire le travagliate esperienze che aveva vissuto.

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Ha sperimentato la passione e la forza delle relazioni primarie, l’attaccamento e l’innamoramento così intensi e viscerali. Il rispetto e la fiducia sono state esperienze per lui tardive ma non per questo meno stupefacenti.

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Ha raggiunto la sua mamma; lei in Italia già da quattro anni si è sistemata, ha trovato un compagno, una casa e un lavoro. Lui ha così potuto seguirla.

La scuola ha iniziato a chiamare da subito, segnalando comportamenti incontenibili, violenti e lontani anni luce dalla “condotta regolare”. Non si è integrato a scuola, non ha legato con nessun coetaneo e non ha fatto breccia negli adulti attorno a lui. Questi sono distanti, diffidenti, intolleranti a quel senso di profonda frustrazione ed impotenza che genera. Lui vede la paura negli occhi di chi lo guarda.

Il primo anno di superiori ha tracciato un netto passaggio evolutivo. I comportamenti irregolari sono diventati reati e la cura, per ogni emozione percepita, le sostanze. Inizia a fumare cannabis dal mattino. Appoggiare i piedi a terra per scendere dal letto è infatti doloroso, il confronto con gli altri insopportabile. Stargli vicino è diventato inquietante, sembra di essere nella stanza con un fuggitivo. La sola presenza dell’altro lo bracca. Cerca il limite nelle persone e nelle esperienze. Ma è un limite disumano. La solitudine e la paura sono emozioni che lo hanno nutrito.

La prima volta che è stato inserito in una comunità educativa ha sperimentato una vicinanza relazionale anche se istituzionale. I ritmi di una casa, le attenzioni, lo sguardo dell’adulto e il calore della prossimità dell’altro sono ustionanti. Una sera è sceso nell’orto della comunità, ha preso la vanga e, minacciando di farsi del male, gridava aiuto.

Poi il carcere. Tre carceri. Diciotto lunghi mesi in cui chiede di poter entrare il comunità. Sono stati tentati due inserimenti, durati meno di quarantotto ore. Chiama e chiede di tornare in carcere. Troppa paura. Gli adulti intorno a lui sfiniti, nelle loro frustrazioni hanno generato un clima conflittuale. La colpa. La responsabilità, lo scetticismo professionale. La diagnosi. La prognosi. Il profilo personologico. Quale trattamento? Il trattamento è possibile?

Poi il terzo tentativo di inserimento in comunità, voluto dalle stesse istituzioni che lo hanno seguito nella crescita, scandito le tappe evolutive a suon di udienze e convocazioni. Riesce l’inserimento. Quattro mesi di progetto e poi la dimissione per condotta incompatibile con la vita comunitaria. Però, non se n'è andato lui. L’ hanno dimesso.

Non è più così devastante da concludere le sue pene in carcere ma neanche idoneo per un nuovo inserimento in struttura educativa. Prende lui la decisione. Dalla mamma non può tornare. Si stabilisce nella piccola casa di montagna del compagno della madre. Isolata, lontana da tutto e circondata da montagne. Le canne non le fuma più, dice che lo stancano. Beve per dormire. Chiama. Decide lui la frequenza e la durata del contatto ma, chiama.

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È un antisociale, un deviante, un delinquente ma “è”. La definizione del ruolo lo aiuta. Sapere chi è, almeno per l’altro, lo solleva. 

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È un antisociale, un deviante, un delinquente ma “è”. La definizione del ruolo lo aiuta. Sapere chi è, almeno per l’altro, lo solleva. Sono passati sei mesi e riesce a stare per più di mezz'ora nella stessa stanza con l’operatore. Ha paura, fa paura, ma gli piace. La rabbia e l’angoscia che genera nell’altro sono i suoi abiti di scena, ma scopre l’ironia.

L’idea paradossale è elaborare un progetto educativo di semi autonomia: partire dalla fine per arrivare all’inizio.

La rete di operatori, istituzioni e soggetti hanno creato intorno a lui un giogo funzionale di rapporti e contatti umani. Un sistema armonico e dinamico di relazioni esistenti che prescinde dal soggetto e che attorno a lui si struttura e si plasma. La coerenza. La trasparenza. La chiarezza di intenti, obiettivi e strumenti gli hanno permesso di capire e comprendere la dinamica delle interazioni.

Ha sperimentato la passione e la forza delle relazioni primarie, l’attaccamento e l’innamoramento così intensi e viscerali. Il rispetto e la fiducia sono state esperienze per lui tardive ma non per questo meno stupefacenti. La rete ha assorbito e ammortizzato la potenza emotiva e interazionale che lui sprigiona dal confronto con l’altro. La rabbia generalizzata, caotica e incontenibile, ha così lasciato spazio alla rabbia motivata dalla gelosia, dall’ansia, dalla paura di sbagliare, dalla voglia di provocare e dall’impotenza di riconoscere i propri limiti.

Ha scoperto la bellezza della fiducia e del consistere nella mente e nel pensiero dell’altro. Ha potuto comprendere di poter essere anche altro, oltre ad un inquadramento diagnostico.

La rabbia a volte scema e la desolazione del suo passato può così essere percorsa all’interno di una terapia. La chiede lui. Altre emozioni oggi abitano il suo mondo e lui le assaggia con prudente voracità, sicuro della sua ormai radicata capacità di far temere e allontanare l’altro.

Oggi, a 20 anni, stiamo aprendo la valigia con cui è arrivato quando ne aveva 13 e lui è consapevolmente spaventato da tutto questo. Ma trova il coraggio di dare la mano all’altro e dirgli di andare piano.

Manuela Del Campo
Laureata in Scienze Sociali Applicate con specializzazione in criminologia e devianza. Dal 2008 si occupa di tutela minori dal 2012 lavora come consulente esperto per il Ministero di Giustizia nell'U.E.P.E. di Pavia.

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