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Cinque figure dell'immaginario fumettistico come altrettanti simboli di adolescenze "sul limite" tra perdita di sé e riscoperta dell'appartenenza a un gruppo.

Nathan Never: la solitudine

L'esperienza della solitudine acquisisce una tonalità fondamentale e decisiva in età adolescenziale; potremmo dire che chi non è stato davvero solo a sedici anni forse non lo sarà mai davvero per tutta la vita, e forse non c'è da invidiarlo. La solitudine degli e delle adolescenti è un misto di tratti tragici ed eroici; fa soffrire ma fa anche sentire eletti; è la solitudine dei dannati, dei diversi e forse degli dei; la solitudine di cui parla Roberto Vecchioni in una canzone di tanti anni fa: "Non si è soli quando un altro ti ha lasciato/si è soli se qualcuno non è mai venuto".

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Essere soli è oggi molto difficile, e forse è proprio per questo che oggi concepiamo la solitudine come una malattia, come una delle peggiori patologie contemporanee; stare da soli, concentrarsi, isolarsi dal mondo (in compagnia di un libro, o anche di nient'altro che se stessi) per poter tornare al mondo con rinnovate energie, è troppo difficile in una società che ci travolge con i suoi ritmi; né valgono gli inviti un po' elitisti a rallentare i ritmi, a prendersi il tempo del riposo e della festa, quando troppo forti sono le urgenze che circondano coloro che si occupano dei problemi sociali o che devono ogni giorno guadagnarsi il pane. Forse la vera solitudine, quella feconda di idee e di riposo, quella in cui si ritrova se stessi, sarà concessa solo ai più fortunati cittadini di un mondo giusto. Ma oggi sarebbe necessario comunque imparare a stare da soli; e di questo sembrano incapaci gli adulti e, di riflesso, i ragazzi e le ragazze, che temono quella che è l'esperienza forse più dolorosa della loro età.

{xtypo_quote_right}Solitudine dovrebbe significare anche salvaguardia della propria unicità e resistenza nei confronti dell'omologazione; gli spazi e i tempi dello star soli dovrebbero servire all'individuo per marcare i propri territori psichici e sociali facendone delle riserve al riparo dalle intrusioni o invasioni esterne; ogni persona dovrebbe, in solitudine, arredare il proprio "rettangolo personale", il proprio territorio intimo, costellandolo di due o tre libri, di un brano musicale, di un ricordo, e consentirne l'accesso solo a pochi amici, e a certe condizioni. {/xtypo_quote_right}

Nathan Never, questo eroe di carta che fa concorrenza a Dylan Dog quanto a fascino e a intelligenza delle sue avventure, è il prototipo del "bel tenebroso" che sta da solo perché ha un terribile passato da dimenticare (o da ricordare) e proprio per questo piace tanto agli adolescenti; che però stanno da soli (e al contempo temono la solitudine) per il motivo opposto: è il futuro a premere in modo insostenibile sul loro immaginario, e il loro rapporto dialettico con la solitudine è un rifugio contro il carattere insopportabile con il quale il domani si presenta.

Se l'esperienza dell'essere ignorati (dagli amici, dai membri dell'altro sesso) viene infatti proiettata sul futuro, l'adolescente si sente rifiutato/a in eterno, fa sua la condizione di paria, e sprofonda in quella solitudine radicale nutrita di pessimismo cosmico che gli fa concepire cosmogonie in cui tutti sono soli, e non c'è possibile comunicazione tra le freddezze umane (non si sa quanto errata sia poi questa cosmogonia, nella frenesia egoistica della nostra società!). L'angoscia relativa al fatto che il "qualcuno" che "non è mai venuto" possa diventare un qualcuno che non verrà mai vela la solitudine del fanciullo e della fanciulla di un radicale nichilismo. E insegnare ai ragazzi e alle ragazze a stare da soli/e dovrebbe significare costellare le loro giornate di presenze (adulte ma non solo) constatabili e verificabili, ma non intrusive; come porte socchiuse, da attraversare se lo si vuole, ma senza l'obbligo o l'assillo di farlo.

Solitudine dovrebbe significare anche salvaguardia della propria unicità e resistenza nei confronti dell'omologazione; gli spazi e i tempi dello star soli dovrebbero servire all'individuo per marcare i propri territori psichici e sociali facendone delle riserve al riparo dalle intrusioni o invasioni esterne; ogni persona dovrebbe, in solitudine, arredare il proprio "rettangolo personale", il proprio territorio intimo, costellandolo di due o tre libri, di un brano musicale, di un ricordo, e consentirne l'accesso solo a pochi amici, e a certe condizioni. Ma in una società che pare isolare gli individui per meglio controllarli e per procedere all'omologazione, in un assetto sociale nel quale i soggetti sono costituiti in "monadi senza finestre" che però sostanzialmente pensano e agiscono in sintonia con coloro che li circondano, diventa molto più difficile sfuggire al rischio del livellamento. Imparare a star soli dovrebbe allora significare pensare alla solitudine come a una strategia di resistenza; essere in questo mondo ma non di questo mondo è forse concesso ai santi o ai folli; essere nel mondo con tutta la forza resistenziale del poter restare soli può essere una soluzione, un punto di arrivo per un processo di crescita che prenda sul serio la tragicità e il fascino delle solitudini adolescenziali. È allora importante che nei gruppi di adolescenti, in particolare in quei gruppi che vengono pensati e strutturati agli adulti, ogni ragazza o ragazzo possano avere il loro spazio di disimpegni loro "buchi bianchi" spaziotemporali per potersi occupare di sé, isolatamente dal gruppo. E siccome la retorica della solitudine omologa l'individuo tanto quanto l'insistenza sul  collettivo, occorrerà che le energie che il soggetto ricava da questa necessaria chiusura su di sé vengano messe -in parte- a disposizione del gruppo, che aiuterà il singolo a elaborare il proprio processo di crescita.

Ma questo modo di elaborare la solitudine deve valere prima di tutto per gli adulti, per gli educatori; soprattutto per loro, al fondo del gesto che per un momento ci isola dal resto del mondo deve esserci, come contraltare all'elitismo, il ritorno a una prassi che è del mondo e nel mondo.

 

 Da Ubiminor Rivista, Anno 1 N.5

Raffaele Mantegazza
Dal 1999 insegna presso l'Universita' di Milano Bicocca, facolta' di Scienze della Formazione. Ha pubblicato oltre 40 libri e circa 200 articoli su riviste specializzate. Attualmente la sua cattedra universitaria e' Pedagogia Interculturale.

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