Di questi tempi nessuna categoria umana più dei bambini, ragazzi, figli, giovani, viene qualificata come “nostra”.
Fa parte della retorica, o forse è perché ci danno la misura dei diritti e doveri degli adulti. Sono il noi stessi e il futuro portati all’essenza, la vita nel suo puro e limpido valore condensato nell’innocenza. I “nostri” figli non meritano che… I “nostri” giovani devono essere educati a… I “nostri” bambini hanno il diritto di…
Mi sento un po’ insofferente, lo confesso. Se mi capita di correggere le bozze di qualcuno, ogni “nostro” che incontro vicino a “figli” o a “bambini” se posso lo cancello. Quanto a me lo penso poco e perciò lo scrivo raramente ma a volte sfugge, se in rilettura ne scovo uno e la frase regge ugualmente me lo levo di torno. L’aggettivo possessivo, applicato ai bambini, chissà perché mi disturba.
Ma no invece, lo so il perché. Almeno per due ragioni. Per cominciare, a ciò che possediamo siamo convinti di poter fare di tutto: siamo noi il padrone. Succede con la terra, con gli animali e pure con i bambini, troppo spesso con le donne, ma la vita degli altri non ci appartiene. Ho parlato con genitori maltrattanti e abusanti che si sentivano nel giusto, dopotutto si esercitavano con i “loro” bambini”! Lo stesso padre di cui ho scritto qualche settimana fa, quello che ha coinvolto i due figli in un incidente stradale, e sono morti entrambi, guidando in modo dissennato sotto l’effetto di cocaina e girando una diretta Facebook, fino a un istante prima dello schianto probabilmente non avrebbe accettato rimproveri. Un padre ha il pieno diritto di fare quello che vuole con i “suoi” figli.
Il secondo motivo di orticaria è che la proprietà definisce e richiede un confine. La “mia” casa è una sola, poi ci sono quelle degli altri, per cui non pago le bollette. Sarà lo stesso per i bambini, se ci sono i “nostri” ci saranno anche i “loro”, di cui siamo autorizzati a non prenderci cura? Riusciamo a pensarli tutti “nostri” allo stesso modo?
Ha fatto il giro del web la fotografia scattata in prossimità di un centro di accoglienza, con Zi’ Nicolina, Zi’ Vicenza e Zi’ Maria di Campoli, nel Sannio, sedute una accanto all’altra, ognuna in braccio un bambino di colore. Divertente, tenera, sì. Purtroppo non riesco a fare a meno di sentire la voce del fotografo: “Signora, se lo vuole tenere un poco in braccio questo bambino così le faccio una foto? Venga, si metta anche lei. E anche lei, qui, accanto alla sua amica”. (Nel mio orecchio la voce tendeva a dare del voi a ognuna, ma temo che sia rimasta indietro).
Potrei sbagliarmi, magari invece il trio di anziane signore era già in relazione con quei bambini che vivono non lontani dalle loro case e il fotografo tutt’al più le ha fatte sedere sulla stessa panchina, senza inventare niente. In ogni caso mi arriva la dolcezza e l’allegria del momento, forse perché ho imparato parecchi anni fa, da uno esperto, che i nonni sono genitori due volte, o forse perché all’invito del fotografo, comunque, altri avrebbero detto di no mentre loro, mi sembra, stanno in posa volentieri. Che poi la rappresentazione, anche fosse costruita a tavolino, in qualche modo diventa realtà. Immagino che in quel momento Zi’ Maria, tra le braccia il più piccolo addormentato, avrà provato una tenerezza vera, non teorica non generica, proprio per quel bambino lì, abbandonato tra le sue braccia con la fiducia che solo a pochi mesi è possibile – lo canta bene in Culodritto Francesco Guccini – e si sarà commossa per questo, non per il fatto di stare in una fotografia. Lo stesso mi vale per Zi’ Nicolina e Zi’ Vincenza.
Con nessuna allegria ma una straziante dolcezza mi affiorano altri scatti, sicuramente spontanei, di bambini che sono diventati simbolo di queste settimane. C’è Valeria di 23 mesi annegata insieme al papà, Oscar Alberto Martinez Ramirez, di El Salvador, sigillati insieme nella maglietta di lui mentre cercano di superare la frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti. C’è Rayane, 11 anni, sgomberato dalla ex scuola di Primavalle che sfila davanti ai poliziotti con la pila di libri antichi in equilibrio precario, che ha suscitato tenerezza e sputi, come fa la sofferenza di questi tempi. A lui, perché lo ha commosso in fotografia, un anonimo donatore coprirà le spese scolastiche per il prossimo anno. Vorrei essere sicura che altri, le istituzioni magari, garantiranno il diritto allo studio anche all’ulteriore ottantina di bambini che abitava lì.
Mi soffermo su un’altra immagine ancora, quella diffusa dalla Sea Watch dopo averci pensato bene. È, in verità, un fermo immagine tratto da un video di Christian Buettner per la tv Eikon Nord. Ritrae un volontario di nome Martin – di lui si sa che è padre di tre figli e fa il terapista musicale – mentre culla il corpo senza vita di un piccolissimo. Riprendo da Avvenire del 30 maggio scorso: «Ho preso l’avambraccio del bambino e ho avvicinato subito il corpo in modo protettivo alle mie braccia, come se fosse ancora vivo. Ho cominciato a cantare per confortarmi e per cercare di esprimere in qualche modo questo momento incomprensibile, straziante. Aveva le braccia aperte con le dita minuscole all’aria, il sole illuminava i suoi occhi chiari, amichevoli ma fissi. Solo sei ore fa questo bambino era vivo».
Come per Rayane o Valeria, tocca dire che il piccolo naufrago senza nome ci stringe il cuore perché lo vediamo. Dei tantissimi altri annegati nel Mediterraneo non sapremo mai niente, non il volto o la figura, neppure il numero. Mentre scrivo ho fresca la notizia dei 150 migranti morti nel naufragio più grave di quest’anno, non sappiamo tra loro quanti bambini ci fossero. Ma anche in un naufragio piccolo, le vite valgono uguale. Anche se parliamo di adulti, quegli adulti sono un precipitato di sogni, rapporti, emozioni. E anche loro sono stati bambini, anche se pochi – è nel Piccolo Principe – se ne ricordano.
E di nuovo, dunque, di chi sono i bambini? A chi spetta prendersi cura della vita?
Qualcuno ha le idee chiare, li pensa carne tenera per i pesci e non c’è dubbio che il suo catasto interiore abbia precise registrazioni. I “loro” figli non sono “nostri”, ce ne dovrebbe forse importare? Ciascuno pensi alle “cose” sue.
Suppongo che questo garantisca una protezione parecchio solida. Vuoi mettere come ti addormenti bene la sera?
A costo di scegliere il dolore mi siedo accanto a Martin. E davvero possiamo entrarci, nel vissuto di quest’uomo che canta per confortare se stesso e per celebrare un commiato, quando ormai per il bimbo non può fare più niente.
E poi non lo sappiamo. Possiamo sperare – o: abbiamo bisogno di sperare – che in qualche modo insondabile la ninna nanna arrivi anche a lui, quella che non abbiamo saputo cantargli in vita.
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta