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“Se mi dicono che sono una zingara non mi offendo: è vero. Se mi dicono zingara di merda allora sì, mi offendo”.

Gli occhi fieri di Regina, 13 anni, mi hanno accompagnata per un pezzo e ritornano alla memoria in questi giorni, rievocati dallo sgombero del campo nomadi della mia città.

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Il tribunale per i minorenni dispone sempre l’ascolto delle famiglie di cui si occupa: i genitori, i ragazzi dagli 11-12 anni in su, a volte altri familiari. A Bologna lo fa avvalendosi di tutti i suoi giudici, togati e onorari, e in questo senso sono stata coinvolta anch’io. Gli incontri con i nuclei rom o sinti rappresentano un capitolo a sé nell’esperienza complessiva (straordinarie le nonne!) come pure i procedimenti penali a carico di questi ragazzi, una lunghissima scia di alias e iscrizioni di polizia, prevalentemente imputati per furto, resistenza a pubblico ufficiale, false generalità.

Nel penale oscillavo tra il pensiero alle vittime magari violate nell’intimità della loro casa, un’istanza più generale di affermare la giustizia in modo equo chiunque sia l’imputato, e frequenti sensazioni di inutilità e impotenza.

Qual è il senso, mi chiedevo, di processare questi ragazzi regolarmente assenti ma rappresentati da avvocati di fiducia – che poi sono sempre gli stessi – per un furto in appartamento o la sottrazione di rame? Alcune volte, pochissime, gli imputati erano in aula, sembravano ben disposti e abbiamo tentato delle messe alla prova che generalmente non sono andate a buon fine; molto più spesso abbiamo condannato e, in presenza di recidive specifiche – il furto in causa era sempre l’ennesimo di una sfilza – erano escluse le attenuanti o la sospensione della pena. Da domani quel ragazzo, quella ragazza, avrà l’assillo di non farsi trovare, e quando lo rintracciano lo portano dentro. A che servirà?

(È una domanda strana, me ne rendo conto, ma credo sia tipica del giudice minorile. Di per sé un processo penale deve essere giusto, accertare i fatti e concludersi applicando la legge; questo è il massimo che si può pretendere, aldilà che si giudichino adulti o adolescenti. Aspettarsi che serva anche a qualcosa è una bella pretesa, incoraggiata però, lo dico a mia giustificazione, dal fatto che il processo penale minorile ha nel DNA la tensione a indirizzare i giovani che hanno infranto la legge ad intraprendere una strada migliore).

Anche nei procedimenti civili minorili, ovvero quelli che tutelano i bambini di genitori maltrattanti o trascuranti, rom e sinti ne ho incontrati e nei casi migliori il confronto è stato schietto, animato dalla sincera voglia mia di capire e loro di spiegarsi.

Si confrontavano modelli diversi d’infanzia, di educazione, di protezione dei bambini, e se alcune cose – l’alcolismo, la tossicodipendenza – erano indubbiamente problemi da risolvere per me come per la famiglia, altre come la violenza familiare, l’illegalità o l’inadempimento scolastico potevano assumere significati diversi.

Negli adolescenti ho osservato passaggi identitari in tutte le direzioni.

Regina, segnalata a 13 anni come bulla perché aveva picchiato due compagne che la insultavano per la sua provenienza culturale, voleva essere e si proponeva come una qualsiasi ragazza italiana; sognava di diplomarsi cuoca, lavorare, affittare un appartamento dove ospitare i fratelli.

L’ho rivista qualche anno dopo, completamente trasformata. Faccia rom, abiti rom, polvere rom, sette mesi di gravidanza per un secondo cugino, violento con lei fin dal primo giorno della loro relazione. “Lo so, il mio sogno era un altro, ma è troppo difficile. Devo capire che questo è il mio destino”.

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Invece Elizabeta, che amava studiare, ce l’aveva fatta a chiedere protezione. Era stata accompagnata in una comunità per minori dove è vissuta parecchi mesi, salva da un matrimonio combinato e precoce e decisa a diventare indipendente. Purtroppo i familiari l’hanno rintracciata, rapita, portata lontano. Nonostante le ricerche, di lei non abbiamo saputo più niente.

Poi c’è Claudio, la cui mamma gagia si era allontanata, correndo parecchi rischi, dal marito rom portando con sé i bambini per sottrarsi e sottrarli a una vita di violenze estreme. Una volta cresciuto le si è rivoltato contro rivendicando una supposta identità culturale che era la traccia ingigantita della voglia di un padre e si traduceva in tossicodipendenza e illegalità, sulle orme del genitore.

O Giovanni, un ragazzo inquieto il cui padre, dopo un’adolescenza spesa dentro e fuori dalla galera, ci teneva a mandare i figli a scuola ed era fiero di essersi trasferito da qualche anno in una vera casa.

Le contraddizioni non sono soltanto in loro. Covano e agiscono misteriosamente nelle istituzioni, nelle strutture, nei processi decisionali. L’asticella dei diritti dei bambini deve essere la stessa per tutti? Diremmo di sì, però raramente viene applicata allo stesso modo. Ridimensionare le pretese verso i genitori rom o sinti è comprensione o discriminazione? E se scegliessimo il secondo polo, la discriminazione sarebbe positiva o negativa?

Ho conosciuto giudici, che ora non lo sono più, che non volevano richiamare le famiglie al dovere di mandare i figli a scuola (“La vita insegna a quei bambini molto di più della scuola e comunque non è vero che l’istruzione sia obbligatoria, o se lo è è una legge ingiusta e io non la applico”). Ne ho conosciuti altri che sull’inadempienza scolastica avrebbero fondato una deportazione di massa. Non li ho apprezzati, gli uni e gli altri.

Ho provato qualche volta a suggerire di raccogliere maggiori conoscenze. Diversi magistrati mi hanno ricordato che il tribunale decide sui singoli casi, non sui fenomeni sociali e, dunque, saperne di più delle famiglie nomadi non serve a capire quella famiglia, che potrebbe avere meccanismi tutti diversi dalla maggioranza delle altre. Un rilievo incontestabile che ha però un controcanto: un tribunale che sa poco della cultura di provenienza o del sistema di significati di cui sono portatori le persone, può veramente prendere buone decisioni su di loro? E il tribunale non utilizza comunque dei riferimenti culturali – i propri, i più comuni – come lenti per capire ciò che gli si presenta?

Quando viene segnalato un bambino molto piccolo trovato in braccio alla mamma in un treno a mendicare, che cosa deve fare l’autorità giudiziaria che vuole mettere al primo posto “il preminente interesse del minore”? Si oscilla tra l’allontanamento d’urgenza e i complimenti alla signora, che nemmeno sul lavoro si distacca dal suo bambino. Una terza via, più complicata, richiederebbe di comprendere che cosa sta accadendo davvero in quella famiglia e se sia possibile promuovere un cambiamento che comprenda adulti e bambini.

Non lo so se una maggiore comprensione della cultura rom o sinti aiuterebbe i giudici a decidere per loro, e io stessa che scrivo queste parole non ho fatto a sufficienza per costruirmela. So però che i giudici (tutti, anch’io) tengono comunque conto, magari implicitamente, di ciò che conoscono e modulano le loro decisioni anche in considerazione di queste informazioni.

Il discorso vale anche per altro, dalle punizioni corporali alla violenza assistita: le esperienze, i valori, le convinzioni personali influenzano implicitamente la decisione, né potrebbe essere altrimenti, tanto vale riconoscerlo e tenerne conto.

La ruminazione si interrompe con Mario, ragazzino rom di 12 anni. Seduto di fronte a me in ufficio non mi rivolge subito attenzione, si guarda intorno con aria circospetta. Gli domando:

– C’è qualcosa di strano qui dentro?

– No ma… Me l’aspettavo diverso.

– “Diverso” come?

– Non so… diverso. Ma tu davvero riesci a passare tutta una giornata qua dentro?

– Eh sì, mi capita spesso di passare tutta la giornata qui dentro. Perché, cosa ci manca?

– La bellezza.


testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta

Elena Buccoliero
Sociologa e counsellor, è docente a contratto all’Università di Parma sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti e svolge attività di formazione, ricerca, supervisione e sensibilizzazione su bullismo, violenza di genere e assistita, diritti delle persone minorenni. Dal 2008 al 2019 è stata giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Ha diretto la Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati (2014-2021) e l’ufficio Diritti dei minori del Comune di Ferrara (2013-2020). Da molti anni aderisce al Movimento Nonviolento. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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