Il 9 ottobre la senatrice a vita Liliana Segre ha parlato per l’ultima volta ai giovani. È un dispiacere, come ogni volta che la bellezza si ritrae.
Liliana Segre, lo abbiamo imparato, è una donna straordinariamente bella, ma possiamo credere che a 90’anni, di cui 30 di testimonianza incessante e, prima, 45 di necessario silenzio, abbia bisogno e diritto di fermarsi. Di riposare dai viaggi e dagli incontri, certamente, ma molto più dalla fatica di rievocare e soffrire daccapo tutto ciò che ha vissuto, come lei ha chiarito più volte, con la consueta nettezza.
Liliana Segre ha scelto di svolgere l’ultimo incontro a Rondine, in provincia di Arezzo, nella Cittadella che dal 1997 ad oggi continua a riunire giovani costruttori di pace provenienti dai conflitti più accesi in ogni parte del mondo, come spiega molto bene Luca Attanasio in un suo articolo per il web. È lì, ha affermato la Segre, la raffigurazione del mondo che vorrebbe vedere in futuro.
“A fondarla è stato Franco Vaccari”, scrive Attanasio, “uno psicologo dalla forte vocazione civica, quasi ossessionato dalla ricerca della pace e di metodi innovativi per favorirla. Nel 1997, dopo varie esperienze di mediazione nelle situazioni di tensione dell’Est europeo, viene chiamato a fare da negoziatore nel conflitto russo-ceceno e accoglie la richiesta di ospitare due giovani russi e tre ceceni a Rondine per dare inizio a un percorso di dialogo e riconciliazione. (…) Oggi la World House accoglie trenta studenti di venticinque nazionalità diverse di medio oriente, Balcani, Africa, Caucaso e America Latina, e ne ha già formato oltre duecento. Il suo metodo, basato sulla definizione di un nuovo modello relazionale che mira a disinnescare il conflitto trasformandolo in occasione di crescita e sviluppo, ha guadagnato riconoscimenti accademici da parte dell’Università Cattolica di Milano e dell’Università di Padova e viene studiato ad Harvard, in Canada e in molte altre università nordamericane, oltre che applicato in tantissime situazioni di conflitto latente, dalle aziende italiane fino alle realtà di odio etnico, tribale religioso o interstatale”.
Come Movimento Nonviolento, tra i molti riconoscimenti ci è caro ricordare anche il Premio Nonviolenza dell’Associazione Cultura della Pace e del Comune di Sansepolcro, assegnatole proprio quest’anno dal comitato scientifico in cui siede il nostro presidente Mao Valpiana, premio condiviso con Sergio Bassoli e Francesco Vignarca in rappresentanza di Rete della pace e Rete disarmo a un passo dalla fusione.
Liliana Segre ha scelto di completare il suo percorso di testimonianza rivolgendosi ai giovani per dire loro di scegliere sempre la vita. Ha voluto parlare ancora una volta ai suoi nipoti potenziali e, con loro, alla ragazzina che è stata e di cui pure si sente la nonna. C’è una grande sapienza e tenerezza in questo prendersi cura della propria infanzia e giovinezza spezzate. Liliana ripete di ogni volta di averlo potuto fare grazie all’amore che ha ricevuto, quello del marito prima di tutto, il primo a riconoscere in quella ragazzina ferita e scorbutica – è lei a ricordarsi così, e aveva tutto il diritto di esserlo appena uscita dal campo di Auschwitz – la splendida donna che sarebbe diventata. Non c’è che l’amore, e l’ascolto che ne è una manifestazione primaria, a compiere questo genere di trasformazioni. Non la ringrazieremo mai abbastanza perché dopo averne beneficiato ha scelto di donarlo a noi.
Non è certamente un caso se ogni suo discorso incomincia dall’infanzia, né mi pare una questione di cronologia. Ha intatto il ricordo di ciò che ha voluto dire, per lei bambina di 8 anni, essere espulsa da scuola e diventare invisibile.
“Ci sono quei momenti della vita in cui ti puoi ricordare un colore, una situazione… Io ero a tavola, con mio papà e i miei nonni, e mi dissero: tu non puoi più andare a scuola quest’anno. Io dovevo fare la terza elementare, ed ero un’alunna qualunque, una ragazzina discreta, né brava né non brava, ma mi piaceva molto andare a scuola. Figlia unica, senza la mamma, non avevo fratellini o cuginetti con cui giocare e andavo a scuola molto volentieri. E dissi: ‘Perché non posso più andare a scuola?’ ‘Sei stata espulsa’. Ora, tutti i ragazzi, di tutte le scuole sanno cosa vuol dire essere espulsi.
E io chiesi subito perché. ‘Perché? Perché? Perché?’ E visto che non mi si poteva dire ‘perché sei stata maleducata, hai fatto una cosa gravissima’, ecco che io mi ricordo, proprio come un flash di questi minuti, gli sguardi. Gli sguardi di quelli che mi amavano e mi dovevano dire che ero stata espulsa”.
Molto di peggio è accaduto, lo sappiamo, nella vita di Liliana Segre, ma in quel principio c’è la radice della discriminazione: separatezza, coscienza della propria diversità, ingiustizia di non poter essere una con gli altri e non per un errore commesso, ma per il fatto stesso di essere. Di esserci.
E forse è qui anche la radice indigeribile che non l’ha portata a perdonare, il che non le impedisce di essere una donna di pace: messa nella condizione di vendicarsi su almeno uno dei suoi carnefici ha scelto di non farlo, un’altra pagina indimenticabile della sua storia. Ma è un pieno diritto di chi subisce violenza non perdonare, oltre ogni retorica, in genere portata avanti da chi il male non lo ha vissuto e pretende che sia la vittima a mettere le cose a posto, perché se chi ha sofferto rimette i debiti o dimentica il dolore subito sana le ferite a vantaggio della comunità. Si sorbisce, ancora una volta, il sacrificio maggiore. E a questo gioco Liliana Segre ha scelto orgogliosamente di non partecipare, senza che questo significasse cercare vendetta.
Non c’è niente di nuovo, in questo che dico. Vorrei però che lo ricordassimo ogni giorno. E che ad ogni sottrazione di futuro verso chiunque di noi, “fratelli tutti”, sentissimo la voce di una bambina, di un bambino, che potrebbe essere me che scrivo, tu che ora leggi, e incessantemente ci chiede: “Perché? Perché? Perché?”
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta