Dal mio maestro so che ognuno di noi è chiamato a essere un difensore dei diritti umani.
Il 10 dicembre abbiamo ricordato l’anniversario della Dichiarazione Universale approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e il giorno seguente ho avuto la fortuna di incontrare uno di questi difensori. Si chiama Matteo Benassi ed è sindaco a Boretto, un piccolo centro in provincia di Reggio Emilia. Insieme ai suoi collaboratori si è trovato a prendere decisioni importanti per fermare la violenza su un gruppo di donne e bambini, in una situazione piena di contraddizioni e con risorse oggettivamente ridotte. Eppure non ha avuto un attimo di esitazione.
“Fin dal principio siamo intervenuti e non ci siamo mai chiesti quanto ci sarebbe costato e se potevamo permettercelo, l’abbiamo fatto e basta. È inaccettabile che nel 2020 in Europa debbano ancora esistere situazioni del genere”.
La storia ha inizio un paio d’anni fa. Due giovani donne pakistane in prossimità del parto si confidano con l’ostetrica. Il loro italiano è incerto, e del resto come avrebbero dovuto impararlo se non possono parlare con nessuno, né uscire di casa? Neppure per la spesa, e i bambini (gli altri, tanti, quelli già nati) non vanno ancora a scuola e non escono mai. Soltanto gli uomini possono. Gli uomini possono tutto – e lo fanno. Picchiare, violentare. Si danno manforte, si incentivano l’un l’altro, e le donne ubbidiscono. Mai abbastanza: agli uomini tocca alzare le mani. Chissà che una di queste volte non imparino, a cucinare come si deve, a mettere in ordine la casa. Che poi non è mica facile tenerla in ordine, quella casa. C’è una cucina con appena tre sedie, per gli uomini. Ci mangiano loro, da soli. Il pasto delle donne avviene separatamente, sul letto insieme ai bambini, in quella camera stracolma di abiti e suppellettili ovunque, la stanza dove tutto accade, inclusa la cura dei figli e il concepimento di quelli che verranno, di fronte ai piccoli che già ci sono.
Non è semplice neppure immaginarsela, una vita così. Nella grande casa vivono tutti assieme: diversi fratelli, le loro mogli e una dozzina di bambini, stretti in un vincolo assoluto. Unico spiraglio: le visite mediche in preparazione al parto, le sole occasioni in cui le donne possono uscire di casa. I mariti le accompagnano ma aspettano fuori, e loro si confidano – ma in fretta, hanno i minuti contati, se si attardano sono botte. Si sa che la gravidanza non è sempre un tempo sicuro, neppure per le donne italiane. Tanta violenza si scatena proprio in quei mesi di attesa. Per queste di cui parlo oggi, non so se le cose peggiorino o semplicemente non ci sia differenza.
Sono molto giovani, le due donne, e a casa ce ne sono altre, giovani e schiave anche loro. La più giovane, in quattro anni di matrimonio, quattro figli, uno all’anno. D’altra parte a questo servono: a sfornare bambini. Che se sono maschi diventano i principi della casa, i preferiti di papà. Se sono femmine si dividono quello che resta: imparino subito qual è il loro posto nel mondo.
Le visite preparto sono l’unico spiraglio, l’ho detto, e per la prima volta due donne della famiglia hanno la ventura di trovarsi incinta nello stesso periodo. M’immagino che, i mariti al lavoro, si siano fatte forza a vicenda e insieme abbiano deciso cosa fare.
Raccontano vicende talmente estreme, e dolorose, che chi le ascolta si interroga su come aiutarle, perché le due donne chiedono aiuto ma non sono le uniche vittime in quella casa, ce ne sono altre più una nidiata di bambini, e se si vuole agire bisogna portarli via assieme, tutte le donne con tutti i bambini. Poi le cose peggiorano. Le dottoresse hanno dato il loro cellulare personale per ogni evenienza e vengono chiamate di nascosto, la sera, quando la violenza ricomincia. Il Comune organizza “il 403”, che nel gergo degli operatori sociali indica l’allontanamento in urgenza di un bambino in pericolo ai sensi dell’art. 403 del codice civile. Si può applicare per i figli da soli o insieme a uno dei genitori, come in questo caso. Donne e bambini vengono condotti in comunità di accoglienza che non è un divertimento per nessuno, nemmeno per il Sindaco o il Servizio Sociale.
“Siamo andati a prenderli con i carabinieri”, mi raccontano, “la casa era in condizioni inimmaginabili. Fuori da lì, con l’aiuto di una mediatrice, hanno raccontato. Violenze di ogni genere, ogni giorno e da anni, sulle donne e sui bambini. Per le donne la violenza era anche sessuale. La loro condizione peggiorava quando ospitavano una parente dei mariti che veniva a visitarli di tanto in tanto proprio per insegnare alle donne come comportarsi. Per ogni errore era lei a picchiarle e a farle picchiare”.
(Questa violenza maggiore, agita o comandata da una donna, fa riflettere sulla complessità di un sistema culturale dove non regge l’equazione uomini cattivi e donne buone – e si potrà pur dire che l’arpia aveva interiorizzato la regola patriarcale dopo tanta violenza subita e assistita, ma lo stesso potrebbe dirsi anche per i mariti…).
I maltrattanti vengono condannati in primo e in secondo grado. A quel punto accettano la sentenza che diventa definitiva. “Nel processo, incredibilmente, non hanno negato i fatti”, ricorda il sindaco, “si sono difesi facendo appello all’importanza di tenere le famiglie unite”. Una unica, grande famiglia con regole ben chiare, dove le mogli e i figli si conducono come animali.
“Per noi che siamo un piccolo comune è un enorme sacrificio pagare da qualche anno la retta di comunità per tutte queste persone e cercare i modi giusti per sostenerle”. Non è solo una questione economica. Ci sono i colloqui, il supporto delle educatrici alle mamme perché acquisiscano sicurezza in se stesse e autorevolezza con i bambini. C’è il sostegno ai più grandicelli in neuropsichiatria per risolvere problemi di relazione, alimentazione, apprendimento che i più grandi presentano, dati anche dall’isolamento nell’arcipelago familiare e da tutta la violenza assistita.
“Devo dire che l’Unione dei Comuni di cui facciamo parte ci ha dato una mano e non ha mai sollevato dubbi su questo intervento, anzi”, prosegue Matteo Benassi con fierezza. “Per tutti i Sindaci la priorità è stata fermare la violenza su donne e bambini”.
La parte più difficile viene adesso, dopo che gli uomini pressappoco svolgono la vita di sempre: sono stati sì condannati, ma scontano la pena ai domiciliari e possono uscire per lavorare. Le donne invece sono daccapo recluse perché rischiano la vita a mettere il naso fuori dalla struttura. Sono reiette per la comunità pakistana locale e per le proprie famiglie d’origine che da lontano le istigano a tornare indietro; vengono minacciate e reclamate dai mariti, e rimproverate aspramente dai figli maschi che proprio non perdonano la mamma di averli portati via dal papà. Quei papà che, pur lavorando, non versano un centesimo. “Li manterremo quando torneranno a casa”, dicono.
Qualcuna tra loro sta davvero desiderando di tornare, non riuscendo a immaginare una vita lontana da un uomo che la mantenga e pensi a tutto per lei. Una soltanto, forse non a caso la più istruita, non vede l’ora che la pandemia si risolva per prendere la patente e cercare lavoro.
“Da sola con i bambini avrà bisogno di aiuto”, tornano a dirmi il Sindaco e l’assistente sociale, “siamo cercando delle famiglie affiancanti che creino intorno a loro un senso di comunità, oltre agli educatori che comunque faranno la loro parte”. Accanto a loro c’è anche la Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati che in casi come questi può sostenere alcune spese essenziali. “Il percorso è difficilissimo”, ripete il Sindaco, “ma noi non molliamo”.
Guarda il Convegno del Comune di Adria in occasione della giornata internazionale diritti umani
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta