L’Ucraina si è fatta più prossima con l’inizio della guerra. Troppo lontana e troppo vicina è per chi da quel paese è venuto a lavorare in Italia.
Il censimento del 2020 parla di 250-270mila persone, l’Istat nel 2021 ne rileva 236mila. Sono la quarta comunità straniera nel nostro Paese e la più grande comunità ucraina presente nell’Unione Europea (28% del totale in Ue). Per la stragrande maggioranza si tratta di donne tra i 15 e i 64 anni impegnate nel lavoro di cura. Risiedono stabilmente in Italia (il 78% è in possesso di un permesso di lungo periodo), benché inizialmente molte si siano trasferite con l’idea di rimanere per alcuni anni soltanto. Rappresentano il 15% dei lavoratori domestici censiti dall’Inps (e, quindi, regolari), secondi soltanto ai rumeni. E siccome si stima che in questo settore quasi il 60% del lavoro sia sommerso, è probabile che i dati reali delle ucraine che lavorano in Italia siano ben più consistenti.
Avendo a mente la stragrande maggioranza viene spontaneo parlare al femminile e in particolare fare riferimento alle badanti. In questi giorni, in queste ore, nelle loro associazioni, chiese e comunità si raccolgono aiuti per le famiglie, convogli che non sempre riescono a partire o che vengono fermati al confine con la Polonia. Ricavo dalla rete le parole e le storie di queste donne in tante città d’Italia. Alcune cercano di tornare in patria per stare accanto ai propri cari, altre vogliono imbracciare le armi o offrirsi nella cura dei feriti, altre ancora tentano di farsi raggiungere qui da genitori e figli. Il ricongiungimento familiare dall’Ucraina è già molto praticato. A questo si deve il 60% dei nuovi ingressi registrati nel 2020, oltre 3.000, la metà del 2019 probabilmente a causa del covid. Una volta che i legami più importanti sono in salvo, la quotidianità è abbastanza accettabile. In questi giorni, però, tante donne che si offrono di ospitare incontrano la resistenza dei familiari che non sono disposti a lasciare il Paese.
Quando si vive lontano da casa la distanza morde sempre, con la guerra in corso molto di più. Le comunicazioni telefoniche con l’Ucraina sono difficili, oltretutto nelle stazioni metro o negli scantinati usati come rifugi la linea si interrompe. Chi è distante colma il vuoto con un’immaginazione feroce che si somma alla solitudine, all’impotenza, al senso di colpa per essersi allontanata.
Queste donne avevano scelto di cercare lavoro in Italia per proteggere i propri figli, garantire loro un futuro. Ora i bambini lasciati alla cura del padre o, più spesso, dei nonni, a scuola svolgono esercitazioni su come ripararsi dagli attacchi aerei, mentre i giovani sono combattenti o potrebbero diventarlo da un momento all’altro. Loro stesse, fino ai 60 anni, possono essere richiamate.
In Toscana, ad esempio, risultano residenti 11.200 ucraini. Don Volodymyr Voloshyn, parroco della chiesa ucraina di Firenze, ha dichiarato al Corriere: «C’è grande preoccupazione nella comunità fiorentina. Sono soprattutto collaboratrici domestiche che vivono una vita difficile di reclusione nelle case, si tengono informate attraverso internet ma si sentono impotenti perché dall’Italia non possono fare niente. Allo stesso tempo sono molto preoccupate per i loro familiari rimasti in patria, pregano per i loro figli, vorrebbero tornare per le vacanze di Pasqua come ogni anno ma stavolta rischiano di non poterlo fare e questo alimenta la loro frustrazione».
A Milano gli ucraini sono 20mila, per lo più donne che lavorano presso famiglie, ospedali o case di cura. Il Giorno riporta che in tante si stanno rivolgendo al Consolato per rientrare in patria a combattere, ma lo spazio aereo è chiuso.
Cerco qualche altra informazione sulle donne ucraine in Italia, così importanti nella cura degli anziani e delle persone fragili in genere. In questo campo il lavoro non manca, anzi è in crescita: gli over 65 in Italia sono 13,6 milioni e gli over 85 sono 2,1 milioni, e il dato è destinato ad aumentare. Le occasioni per chi voglia dedicarsi agli anziani sono tante, ma alle straniere si chiede una flessibilità non indifferente. Le badanti italiane lavorano mediamente 22,7 ore settimanali contro le 38,3 ore delle straniere. Tra le straniere, il 48,2% lavora più di 40 ore settimanali, mentre tra le italiane il dato scende al 12%. Ci sono contratti che superano anche le 50 ore a settimana.
Accudire a tempo pieno un ammalato o un anziano non lascia il tempo per occuparsi di se stesse, neppure della propria salute. Per questo e per un mix di scaramanzia, approccio culturale, difficoltà linguistiche, le badanti disertano i programmi di prevenzione e se si ammalano incominciano a curarsi solo quando la malattia è già in stadio avanzato. Oltre ai tumori sono frequenti i disturbi psicologici o psichiatrici e quelli del sistema cardiocircolatorio. Inoltre, tra le donne straniere che abitano presso la casa del proprio assistito, sono più probabili le umiliazioni, i maltrattamenti fisici e altre forme di violenza sul lavoro.
Coloro che sono giunte in Italia vent’anni fa a 45-50 anni, sono ormai anziane e per la maggioranza non hanno diritto alla pensione, o quella che riceverebbero sarebbe troppo esigua per coprire le spese, figuriamoci per mandare soldi a casa. Così continuano a lavorare tutto il giorno, con poche relazioni sociali e una relativa integrazione. Prima dei bombardamenti la volontà di rientrare al proprio Paese si era affievolita, e anche i figli o le figlie crescendo erano sempre più radicati nella loro realtà e non se la sentivano di trasferirsi in Europa. La guerra che irrompe rimette in discussione tutto, in ogni direzione possibile, anche quello economico. Nel 1° semestre 2021, dall’Italia, le donne ucraine hanno inviato nel paese d’origine 141 milioni di euro di rimesse. Di più probabilmente vorranno fare adesso che il loro paese è in guerra, se avranno la possibilità di farlo.
Domina, l’Osservatorio sul lavoro domestico, insieme ai sindacati CGIL-CISL-UIL ha messo a punto una piattaforma programmatica in 5 punti per ampliare a questa categoria i diritti essenziali dei lavoratori e riconoscere maggiori diritti anche ai datori di lavoro: indennità di malattia a carico dell’INPS e non delle famiglie, come è oggi; riconoscimento della maternità e della genitorialità (su 750 mila lavoratrici domestiche, solo lo 0,8% è in maternità, tra gli altri settori l’incidenza raggiunge il 3,9%); deduzione fiscale dei costi per il lavoro domestico per incentivare la regolarizzazione, aumentare la sicurezza delle lavoratrici e produrre un nuovo gettito fiscale grazie all’emersione dal nero; riforma delle norme sull’immigrazione prevedendo quote d’ingresso per lavoro domestico nel decreto flussi annuale e introducendo nuovi tipi di permesso di soggiorno, per «comprovata integrazione» e per «ricerca occupazione» (12 mesi); assegno universale per la non autosufficienza.
Può sembrare che tutto questo sia secondario ora, rispetto alla guerra. Io ritengo invece che ogni riconoscimento dei diritti delle persone sia una meta necessaria per ripudiare la violenza a ogni livello. Di quelle, invisibili, che entrano nel lavoro di cura si è parlato il 18 febbraio scorso in un seminario online ben curato dal Centro ricerca documentazione e studi – CDS o.d.v. di Ferrara, primo di tre appuntamenti. Chi è interessato può rivederlo per intero. https://www.facebook.com/cdscultura/videos/1609955159341278
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta