Pochi giorni fa, per il Movimento Nonviolento, ho portato una breve comunicazione al Congresso nazionale di Medicina Democratica che si è svolto in presenza a Torino, e online, dal 13 al 16 ottobre. Il Movimento è stato invitato nella sezione specifica di Psichiatria Democratica.
Combinare qualcosa di sensato e rispettoso è stato un compito difficile per chi come me naviga in diversi modi l’arcipelago della cura ma non è mai entrato in profondità nel settore specifico della psichiatria.
La mia parte era interrogarsi su come quella “apertura all’esistenza, alla libertà e allo sviluppo del vivente” che Aldo Capitini chiama nonviolenza sia presente e possa ulteriormente radicarsi nella presa in carico del disagio psichico, senza dimenticare quanto la violenza culturale e strutturale in cui siamo immersi concorra a produrre malessere e a indebolire il sistema di cura. Per un operatore occorre mantenere uno sguardo critico e ampio sulla realtà riconoscendo il proprio limite, un limite che ricade sugli ammalati e in buona misura anche sui familiari, spesso lasciati soli a occuparsi di chi soffre.
L’intervento è stato per me l’occasione per restare in ascolto. Dei tanti temi di indubbio interesse riprendo qui, per fedeltà alla rubrica, la questione della salute mentale delle donne trattato da Donatella Albini di YOS Salute Cultura Diritti, Centro di informazione e ricerca sulla salute di genere di Brescia, con un intervento dal titolo “Il corpo e la mente delle donne: cuori pensanti”.
Il disagio mentale riguarda tutti ma assume modalità diverse secondo il genere. Tendenzialmente i maschi mangiano peggio, abusano maggiormente di alcol e droghe e adottano comportamenti che li mettono più frequentemente a rischio (per tutto questo insieme di fattori hanno infatti una minore speranza di vita), invece le donne presentano tassi più elevati di depressione, ansia, fobie, pensieri e tentativi di suicidio. Vivono più a lungo ma sostengono una fatica di vivere non indifferente.
I dati raccolti dal Global Burden of Disease, a cui fa riferimento l’European Institute for Gender Equality (Eige) che ha dedicato il Gender Equality Index 2021 alla salute, ci dicono che le donne perdono un anno ogni dieci a causa della depressione, gli uomini uno ogni venti. Le donne ne soffrono il doppio degli uomini, e 3 volte di più incontrano i disturbi alimentari. E se solo il 62% delle donne si riconosce buone condizioni di salute mentale (contro il 66% degli uomini), il 39% afferma di non potersi permettere percorsi di psicoterapia o cure specialistiche.
È perfino lapalissiano ricordare quanto la sofferenza psichica sia legata alle condizioni di vita, che per l’universo femminile comprendono poca occupazione, stipendi più bassi degli uomini, minor riconoscimento sociale, forte sbilanciamento del lavoro di cura – della casa e delle persone in difficoltà: bambini, anziani, disabili… – che in media, secondo un’indagine Istat sui tempi della vita quotidiana, impegnano le donne per cinque ore al giorno, gli uomini per due soltanto.
Forse per questo mix tra consapevolezza del malessere, poco tempo e poco denaro, le donne più degli uomini assumono psicofarmaci, risposte rapide e chimiche per attutire i sintomi di un disagio profondo e complesso.
L’Istituto Superiore di Sanità riporta tra i fattori di rischio per la salute mentale delle donne una quantità sproporzionata di lavoro non pagato nella cura dei figli o della casa, la povertà e la dipendenza nelle decisioni economiche, la violenza domestica, il minore accesso a fattori protettivi come la piena partecipazione all’educazione e al lavoro retribuito, l’impossibilità di prendere decisioni per la propria vita. Tra le scelte più importanti ci sono quelle riproduttive che, se subite, aggravano fortemente la salute fisica e mentale delle donne. La regolamentazione dell’aborto “ha portato a una diminuzione degli aborti illegali, con conseguenze positive sulla salute sia fisica, sia psicologica della donna. Diverso è il discorso per gli aborti spontanei che riguardano, entro i primi tre mesi di vita, il 20% delle gravidanze”, cui seguono in molti casi ansia e depressione.
Negli ultimi tre anni la pandemia ha peggiorato le condizioni psicologiche di tutta la popolazione e a farne maggiormente le spese sono state le fasce più vulnerabili: donne, bambini, adolescenti. Tra le donne l’83% è andata incontro a sintomi depressivi (tra gli uomini il 37%); d’altra parte sono loro la quasi totalità dei nuovi disoccupati, mentre gli impegni di cura entro le mura domestiche sono aumentati come pure la violenza domestica. Le chiamate ai Centri Antiviolenza nel 2020, quando non si poteva quasi uscire di casa e la convivenza di coppia era forzata, sono aumentate del 119,6% rispetto all’anno precedente.
E dunque, se è vero che i soldi non fanno la felicità, è altrettanto vero che, in un sistema segnato da forti diseguaglianze, chi ha di meno è svantaggiato anche nel raggiungimento di un buon equilibrio psicofisico, connesso all’accesso alle opportunità e, per chi sta male, a cure dedicate e qualificate.
Da un medico amico della nonviolenza imparo ogni volta quanto le condizioni di vita determinino lo stato di salute globale di una persona, più dei farmaci che assume a compensare parzialmente eccessi e mancanze.
La salute delle donne (e degli uomini) non è questione di soldi quando il diritto alla salute è preso sul serio e garantito davvero dalla sanità pubblica. Ancor meno lo è quando quelle diseguaglianze vengono corrette fino a che siano – idealmente – azzerate e ciascuno possa procedere insieme agli altri, e alle altre, affermando il diritto alla propria esistenza, libertà e sviluppo.
La nonviolenza – lo ricorda ancora Capitini in una ulteriore definizione per me liberante – è “un segno di direzione” da dare alla propria vita. Scopriremo nel tragitto con chi viaggeremo, con quale velocità e fino a dove potremo arrivare.
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta