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L’11 maggio scorso Daniele Lugli, il presidente emerito del nostro Movimento, ha incontrato una classe della scuola media di Cona, in provincia di Ferrara, invitato dall’insegnante di lettere, Sebastiano Barlotta. Il dialogo era incentrato sulle figure di Silvano Balboni e di Aldo Capitini e faceva parte di un programma annuale ampio dal titolo “Don Milani e il problema della obiezione di coscienza al servizio militare”.

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Del percorso hanno fatto parte approfondimenti sulla guerra e sull’obiezione di coscienza, laboratori, ascolto di canzoni a tema, esercizi di scrittura collettiva, lettura e comprensione di dati sul commercio di armi e altro ancora. I materiali saranno presto disponibili sul sito della scuola.

Alla sbobinatura dell’incontro con Daniele, curata perfettamente dal professor Barlotta, devo i brani che riporto di seguito. I dubbi presentati dai ragazzi sono profondi e condivisibili, la tentazione di adattarsi alla realtà è triste nei giovanissimi ma traspira diffusamente nel nostro tempo. Questo incontro, pur con le difficoltà tipiche di una lunga conversazione con un gruppo di adolescenti, dà conto di quanto sia necessario mettere a tema la violenza, e la nonviolenza, per i riflessi che questo ha nella quotidianità oltre che nella costruzione di una coscienza critica.

"Io sono venuto, invitato dal vostro insegnante, per parlarvi di una persona che ho molto studiato, perché mi ha molto affascinato e spero possa interessare anche voi. Mi interessa addirittura da quando ero più giovane di voi. Facevo la quarta elementare. Ero in classe con un ragazzo, il mio compagno di banco oltretutto, che si chiamava Balboni, un cognome molto diffuso a Ferrara. Il nostro maestro gli chiese se era parente di Silvano Balboni. Lui rispose di no. A me colpì questo fatto per cui, tornato a casa, chiesi a mio papà chi fosse Silvano Balboni. E lui mi rispose: “Era una persona molto brava, molto buona”. (…) Lui, dal ’38 fino al ’43, ha lavorato in questo gruppo clandestino che teneva i contatti tra i vecchi antifascisti e i nuovi antifascisti".

Studente: Secondo me è più facile risolvere i conflitti con la violenza, però non è la cosa giusta e si creano altri tipi di problemi.

Studente: Per me dipende dalla situazione. Se si fosse in una dittatura, come quella di Mussolini o Hitler, protestare non si potrebbe. E se lo si facesse, non cambierebbe comunque niente.

Studente: Nella situazione che c’è adesso in Iran, ci sta che le donne si mettano a protestare, perché è giusto avere i diritti, però anche se è da tempo che lo fanno non è che siano riuscite a cambiare nulla. Il governo è rimasto sempre con le stesse idee e continua a sterminare chi non segue le sue leggi.

Studente: Secondo me la violenza causa una prosecuzione della guerra, che rischia così di non finire più, invece, con azioni nonviolente, si possono trovare soluzioni che potrebbero portare a far finire la guerra prima.

Studente: Secondo me la violenza può risolvere i problemi velocemente però lascerà dei problemi, invece, protestando con la nonviolenza, ci si metterebbe di più ma sarebbe preferibile.

Studente: Secondo me, se qualcuno vuole protestare contro il proprio governo, scegliere la violenza non va proprio bene, perché sicuramente non funzionerà. Con la nonviolenza magari riesci a convincere tutti, invece, se scegli la violenza è più facile per il governo farti sembrare un terrorista. Poi per rispondere alla opposizione nonviolenta, il governo non può sterminare all’infinito il proprio popolo. Non avrebbe senso. 

Studente: Secondo me la violenza, in alcune situazioni, bisogna per forza usarla, ad esempio per farsi rispettare. Se una persona non ci arriva con la testa, spiegandoglielo, secondo me l’unico modo è la violenza. È un modo rischioso che può far del male però, certe volte, serve con certe persone. 

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Avete detto davvero molte cose. La nonviolenza è un problema. Capitini diceva che la violenza non va usata mai. Seguiva Gandhi. Tuttavia, qualche volta, anche io, quando succede una situazione difficile, sento la tentazione di reagire in forma violenta. Per i motivi che avete detto voi. Motivi veri. C’è, però, un aspetto di fondo che uno di voi ha detto bene. È la profondità.

La nonviolenza va nel profondo perché ti impegna in un’azione che è coerente con quello che tu senti di essere. Molto spesso noi diciamo “Mi viene da…”, “La mia reazione sarebbe…” di violenza. Sono aggredito, o addirittura non lo sono ma c’è il pericolo che tu mi aggredisca, allora lo faccio prima io: nella violenza c’è sempre un aspetto di reazione.

Una cosa ho imparato da Capitini: l’importanza di tenere assieme il fine che vuoi raggiungere con i mezzi che adoperi per raggiungerlo. Lui ci diceva sempre che non ha ragione Machiavelli quando dice che il fine giustifica i mezzi, cioè io voglio arrivare a quel risultato e non mi importa che mezzi adopero. Perché, così facendo, al risultato non ci arrivi e i mezzi che adoperi, lui diceva, pregiudicano il fine, cioè ti distorcono il fine che tu avevi in mente. Voglio realizzare più libertà, allora morte a tutti i tiranni. Voglio realizzare l’eguaglianza, morte a quelli che sono più ricchi. E, in realtà, ti metti in una situazione in cui una guerra finisce per prepararne un’altra, come noi abbiamo imparato dalla storia. Questo è vero nel grande, nelle guerre, ma è vero anche nei rapporti personali, perché, quando tra le persone si scatena la violenza, dopo, per rimediare, per ricucire, ce ne vuole di lavoro. L’azione nonviolenta non è una reazione spontanea, ma è una cosa che si deve studiare e imparare.

Studente: Quando io cerco di fare dei cambiamenti e mi dico: “Da oggi mi metto lì e comincio a studiare meglio”, lo dico e il primo giorno riesco anche, ma dopo mi dimentico subito, quindi per me ci vuole sia costanza sia uno studio per approfondire il come fare.

La costanza è una cosa che Capitini ci raccomandava sempre. Bisogna avere continuità in quello che si intraprende e si considera giusto. Ed è molto difficile. Noi possiamo avere degli slanci, ma poi ci manca la costanza. Quindi è vero che ci vuole lo studio per scoprire come sono riusciti altri a fare delle cose che sembravano impossibili.

Come ha fatto l’India a liberarsi dalla potenza più grande allora al mondo che era la Gran Bretagna? Gandhi ha detto: “Ma come è possibile che un numero modesto di inglesi tenga sotto di sé milioni di indiani?” Cioè, l’ingiustizia si regge sul fatto che le persone colpite l’accettano. Non trovano la strada per opporsi, anzi collaborano con l’ingiustizia.

Studente: Io penso che le proteste non sono così tanto utili per il fine che vogliono raggiungere. Come quando una persona protesta perché le tasse aumentano: non ha senso, piuttosto ti rimbocchi le maniche e lavori di più e ti impegni per raggiungere il fine di pagare quell’aumento di tasse. Le proteste non servono. Secondo me è più la fatica nell’andare a protestare che la fatica nel rimboccarsi le maniche.

Studente: Però secondo me uno può rimboccarsi le maniche fino a un certo punto, perché una persona non può andare allo sfinimento. Invece protestando non fai bene solo a te stesso, ma anche ad altre persone che, per esempio, lavorano già tanto e non ne possono più.

Studente: Secondo me fare una protesta contro un governo oppure un dittatore in particolare o contro qualsiasi persona che ti fa un’ingiustizia serve a convincere tutti a non farsi schiacciare da questa ingiustizia. Per esempio in Iran lo sanno tutti che è un’ingiustizia che le donne devono stare col velo, solo che alcuni si fanno schiacciare. E magari con queste proteste si riesce a convincere a stare uniti e a sconfiggere l’ingiustizia. 

È vero che la protesta, intesa nel senso di lamentarsi di essere vittime, non va bene. Bisogna piuttosto rimboccarsi le maniche e agire. Capitini ci chiamava sempre a svolgere un’azione, a fare delle cose. Il vittimismo non va bene neanche se sei in una situazione difficile. Però la protesta serve, qualcuno di voi ha detto, al fatto che se protesto io, altri potranno riconoscersi nella mia protesta e magari unirsi. E la mia protesta fa già sentire che è profondamente ingiusto quello che sta avvenendo. Questo è già un passaggio. Perché, vedete, se io interiorizzo come giusto quello che non lo è, dopo divento io stesso il custode dell’ingiustizia. Se invece credo che una certa cosa non sia giusta; se faccio un’azione concreta per contrastarla e vedo che posso farlo, anche correndo dei rischi, apro una porta che sennò resterebbe chiusa.


testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta

Elena Buccoliero
Sociologa e counsellor, è docente a contratto all’Università di Parma sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti e svolge attività di formazione, ricerca, supervisione e sensibilizzazione su bullismo, violenza di genere e assistita, diritti delle persone minorenni. Dal 2008 al 2019 è stata giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Ha diretto la Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati (2014-2021) e l’ufficio Diritti dei minori del Comune di Ferrara (2013-2020). Da molti anni aderisce al Movimento Nonviolento. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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