Perché credo che gli educatori e le educatrici meriterebbero un premio che ne valorizzi e diffonda l'operato?
A questa domanda mi piacerebbe non rispondere, anzitutto perché dovrei partire dal fatto che è la mia professione e in secondo luogo perché non sento sia riconosciuta. Ma cercherò di fare un passo indietro per spiegare le ragioni che conducono a questa mia riflessione.
Il motivo principale che mi porta a parlare del lavoro educativo non è cercare una legittimazione di esso, ma farlo ri-conoscere nel senso più profondo del suo significato.
Una scoperta per le persone che non conoscono o che non hanno gli strumenti per cogliere l’importanza della figura dell’educatore; una ri-scoperta costante dell'educatore stesso e per l’educatore stesso e del riconoscimento del suo ruolo nella sua pratica quotidiana.
L'esigenza nasce dal voler far conoscere questa professione, volontà che emerge soprattutto rilevando la difficoltà di molte persone nel comprendere quando è necessario, oltre che possibile, poter usufruire dell'operato dell'educatore. Questa figura risponde a un bisogno collettivo prima ancora che privato.
L'educatore infatti è prima di tutto un mediatore. Mediatore tra i vari attori: non solo la persona per la quale viene pensato il progetto educativo, ma anche la sua famiglia, gli psicologi, gli psichiatri, i neuropsichiatri, i terapeuti, la scuola, il quartiere, le associazioni di volontariato, gli amici, i datori di lavoro ecc.
L'educatore si trova per il suo ruolo a dover mettere in relazione tutti questi attori e a facilitare la comunicazione tra loro. Per questo motivo ritengo che l'educatore risponda più a un bisogno collettivo che personale.
Nonostante ciò, i bisogni nascono dal personale e non sempre coincidono con quelli degli altri, anzi nella maggior parte dei casi entrano in opposizione. I ragazzi e le ragazze incontrano e si scontrano con le diverse istituzioni di cui fanno parte (il sistema familiare con le figure dei genitori, la scuola, le forze dell'ordine, i servizi privati e pubblici della propria città, il contesto di lavoro, i parchi, le fermate degli autobus). Nessuno si senta escluso da questa realtà dei fatti: agli adulti accade lo stesso.
Uno dei compiti principali dell'educatore è proprio quello di lavorare sulla scoperta del bisogno del singolo e trovarne la mediazione con i bisogni degli "altri".
Lo fa per esempio nella scuola assistendo i ragazzi e le ragazze, ponendosi in ascolto dei loro bisogni per metterli in connessione con i bisogni dei propri coetanei, oltre che degli insegnanti.
Lo fa in casa aiutando le famiglie a comprendere i bisogni dei propri figli e delle proprie figlie superando lo scontro e aprendo al dialogo.
Lo fa nelle comunità accompagnando chi ha commesso reati a scoprire i propri bisogni e a vedere quanto questi a volte non permettano di ascoltare i bisogni degli altri.
Lo fa per strada dando forma all'aggregazione giovanile spontanea creando le opportunità di inserire i ragazzi in una rete di associazioni, negozianti e cittadini.
Lo fa con gli stranieri che si relazionano per la prima volta con una cultura differente che si scontra con i propri bisogni, i quali dovranno essere rivisti e rimessi in discussione.
Lo fa con gli ultimi che hanno perso il dialogo con la città.
Lo fa con le persone con fragilità psichica rimettendole in rete e aiutando chi in teoria non ha bisogno d'aiuto a superare certi confini mentali.
Quanto è politico, nel senso greco di “arte che attiene alla polis-citta?”, il lavoro dell'educatore e dell'educatrice visto sotto questa prospettiva? Alcuni aggiungerebbero quanto è vocazionale. Ma non lo era anche la politica una vocazione?
L'educatore/trice è regista sotterraneo della dimensione politica, di un tessuto sociale di cui emergono in superficie solo piccoli elementi.
Ecco perché è necessario un premio per gli educatori che esercitano questa professione.
Per fare emergere dal “sotterraneo” il loro operato e portarlo alla “luce”; per raccontare e far capire il senso e l'importanza del loro ruolo nel tessuto sociale e cittadino.
Un premio che valorizzi le buone pratiche, che racconti storie in cui le persone si possano riconoscere e sentirsi meno sole, che permetta di comprendere meglio quale funzione sociale ricopre un educatore/trice.